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martedì 2 gennaio 2018

Suburbicon, di George Clooney


recensione di Annalisa Petrella 


Metafora perversa del sogno americano


“Noi siamo aperti all’integrazione razziale, ma solo quando i negri saranno pronti!”
Il sesto film di George Clooney regista irrompe sullo schermo con un forte taglio satirico fin dalla prima scena: in una sorta di spot introduttivo vengono decantati i pregi della cittadina nord-americana di Suburbicon, collocazione ideale per famiglie bianche della middleclass degli anni Cinquanta. Le immagini mostrano il tipico villaggio anonimo con file di casette pressoché identiche, simil-lego, corredate da piccoli prati e da ordinati posti macchina, non mancano la chiesa, lo store, il pub, l’ufficio postale e quello di polizia per rendere tutto perfetto e controllabile, in sintesi un luogo, come recita il sottotitolo del film, “dove i tuoi problemi scompaiono”.


E’ immediato il richiamo allo stile dei fratelli Coen che descrivono di preferenza l’America perbenista degli anni compresi tra i Cinquanta e i Sessanta dove famiglie, rigorosamente bianche e apparentemente felici, vivono un sogno di perfezione rigido e inviolabile da qualsivoglia intrusione indebita. Clooney, che ha più volte lavorato con i Coen, ha ripreso la loro sceneggiatura scritta nel 1986 e l’ha rielaborata con l’aiuto del fedele Grant Heslow.
Il film segue due filoni: quello antirazzista, di matrice Clooniana, che narra l’arrivo a Suburbicon dei Meyers, una famiglia di afroamericani, fatto che risveglia nell’intera comunità bianca un’ondata spaventosa di odio razzista i cui strepiti persecutori fanno da sottofondo martellante per tutta la durata del film. L’intolleranza bianca è assatanata di sangue e mette in atto tutti gli espedienti per scatenare nei Meyers reazioni punibili, ma senza riuscirci, la famiglia è collaudata da un’antica storia di persecuzioni e adotta con grande dignità un alto livello di resilienza come unica possibilità per resistere allo stress della violenza perpetrata e cercare di andare avanti.
La vicenda narrata nel film si riferisce a un fatto di cronaca accaduto nel 1957 in Pennsylvania, quando a Levittown si trasferirono William e Daisy Meyers, una coppia di afroamericani e la cittadina, totalmente bianca, insorse in una serie di pesantissime manifestazioni d’intolleranza documentate nel film “Crisis in Lewittown”.
Il secondo filone, ripreso dalla sceneggiatura dei Coen, entra nella vita dei Lodge, la famiglia bianca che abita nella villetta confinante con quella dei Meyers, e attinge agli stilemi del noir hollywoodiano degli anni Quaranta, trasformando la storia in un giallo a tinte forti che diventa una sorta di viaggio pulp, sconfinante nel grottesco. Emerge via via un intrigo di relazioni corrotte e aberranti mascherate dall’ipocrisia di un bieco perbenismo. Gli innumerevoli colpi di scena al limite dell’assurdo risvegliano nello spettatore stupore e scoppi di risa di fronte a situazioni e personaggi che si muovono come automi manovrati da un marchingegno inarrestabile. Gli adulti, maschi e bianchi dominano incontrastati la scena del male con la complicità di donne perfettamente inserite nel loro ruolo di secondo piano. Clooney riesce a descrivere l’arroganza della classe dominante imbastendo una satira rabbiosa e diffidente dove razzismo, classismo e misoginia vengono puniti in un bagno di sangue che esclude soltanto i bambini. E’ confortante seguire il punto di vista di Nicky, il figlio dei Lodge, coinvolto in quest’apocalisse di violenza e imbecillità, che riesce, malgrado tutto, a mantenere con il bambino dei Meyers, nero, un rapporto che travalica ogni steccato e che offre uno spiraglio di speranza.
Gli attori tutti offrono un’efficace prova di recitazione, a partire dai protagonisti Matt Damon e Juliane Moore, a Oscar Isaac, l’assicuratore, fino al piccolo Noah Jupe, nella parte di Nicky.
E’ interessante notare che Clooney regista sa far tesoro degli insegnamenti dei grandi maestri del cinema, ritroviamo con piacere alcuni spunti hitchcockiani: la sedia a rotelle de "La finestra sul cortile"”, le due gemelle, una bionda e una bruna recitate entrambe dalla Moore, di “Vertigo”, lo strangolamento visto attraverso le ombre come in “The Wrong Man” e la suspense crescente del “Delitto perfetto”.




  


16 commenti:

  1. Corro al cinema a vederlo, grazie!
    Daniela

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  2. Ho visto il film e la sua recensione mi ha fornito elementi critici interessanti. L. S.

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  3. Visto, Clooney è maturo come regista e i Coen fanno da supporto. Francy

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  4. Davvero interessante e sicuramente andrò a vederlo!
    Ludmilla

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  5. Brava non solo a evidenziare le varie componenti della trama del film, ma soprattutto a ricercare le matrici cinematografiche, storiche e di costume americane. Brava! Edoardo

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  6. Bella recensione. Andrò a vedere il film.

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  7. Ho visto il film e attraverso questa recensione ho arricchito e perfezionato la lettura del film. Recensione veramente interessante ed esaustiva.Lucrezia

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  8. Grazie, Lucrezia, mia fedele lettrice.
    Annalisa

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  9. un'infame influenza mi finora impedito di vere questo film che mi riprometto di ammirare non appena possibile incentivata anche dalla tua acuta recensione
    Miriam

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  10. Grazie e buona visione.
    Annalisa

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