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lunedì 11 aprile 2016

"Storia del Marocco Moderno", di Stefano Fabei. Intervista con l'autore

(a cura di Mimma Zuffi)


Dal 1974 nessuno ha scritto un libro di storia dedicato esclusivamente al Marocco. 
Oggi abbiamo il piacere di incontrare l’autore del saggio Storia del Marocco moderno edito da Irfan. Stefano Fabei, nato a Passignano sul Trasimeno, insegna materie letterarie presso l’Istituto d’Istruzione Superiore «Giordano Bruno» di Perugia. Una forte passione per la storia lo ha portato a sviluppare ricerche e studi per regalarci questo strumento di conoscenza del passato recente e comprendere l’attualità politica del Paese arabo da cui proviene una delle più numerose comunità straniere in Italia. Nel saggio sono ripercorse le tappe del nazionalismo marocchino e della lotta per l’indipendenza condotta dai movimenti di liberazione nazionalisti, islamici e laici, e dalla monarchia, istituzione che sembra godere di un prestigio garantito dalla sua capacità di coniugare tradizione e progresso, preservando il Paese da fenomeni dall’esito incerto, come le cosiddette “primavere arabe”.


Quanto conta e quanto ha influito nella storia del Marocco moderno la figura del sovrano?

Molto, senza dubbio. L’influenza della monarchia in Marocco è stata ed è determinante per il ruolo storico svolto nel cammino verso l’indipendenza e per la funzione di garanzia cui il re assolve contro ogni salto nel buio. Protettorato francese come la Tunisia, fino all’indipendenza del 1956 il Marocco fu retto da sultani esautorati dalla dominazione coloniale. La particolarità consiste però nel fatto che mentre Muhammad V fu eroe e simbolo per il suo popolo e le organizzazioni nazionaliste, in Tunisia il bey non volle o non seppe porsi alla testa del movimento rivendicativo e infatti fu deposto dopo l’acquisizione dell’autonomia. Il Marocco rivendicò la continuità secolare della sua monarchia dal carattere volutamente islamico; la Tunisia diventò una repubblica presidenziale. Da ciò emerge il diverso carattere della via marocchina alla riconquista della libertà. Se il movimento nazionalista tunisino fu essenzialmente laico, quello marocchino non rinunciò mai a rivendicare le sue radici religiose, a partire dalla rivolta del Rif negli anni Venti. 
Il 2 marzo 1956 una dichiarazione franco-marocchina pose fine al regime di protettorato e in aprile anche la Spagna riconobbe l’indipendenza del Marocco. La vittoria fu il risultato della collaborazione tra sovrano e movimenti di liberazione. Diversamente da altri Paesi alla ricerca dell’indipendenza, nonostante i contrasti e l’eterogeneità della sua società, il Marocco non cercò di rompere con il suo passato per impegnarsi nella ricerca di un nuovo destino. Lo spirito nazionale si identificò nel sultano, capo politico e religioso, consapevole dei particolarismi locali.

Come la Seconda guerra mondiale ha costituito uno spartiacque nel cammino verso la liberazione del Regno del Marocco?

In modo non diverso da quanto avvenne in altri Paesi arabi, lo scoppio del Secondo conflitto mondiale fu salutato anche in Marocco come l’occasione per ottenere l’indipendenza. La guerra fu la fase chiave del nazionalismo, durante la quale si realizzarono quegli elementi che avrebbero determinato gli sviluppi successivi e le modalità stesse dell’indipendenza: adesione del sultano al movimento nazionalista, configurazione dei rapporti tra partiti e classi sociali, rivendicazione a livello emerso dell’indipendenza. Ciò sullo sfondo dell’urto tra potenze nazifasciste e potenze colonizzatrici e alleate dall’altra. Quando la guerra determinò una larvata disubbidienza tra i marocchini, il sovrano, fino allora impassibile spettatore ma forse da tempo in contatto con i nazionalisti, entrò in azione, muovendosi in autonomia dalla Residenza e dalla volontà francese in alcune circostanze. Quando gli Alleati sbarcarono a Rabat, il sultano rifiutò il consiglio francese di non essere presente. Ricevendoli invece senza il tramite del residente generale, che non glielo avrebbe consentito, poté organizzare un incontro con il presidente americano Roosevelt ottenendo formali promesse d’indipendenza nello spirito della Carta atlantica, dando inizio al mito di Muhammad V, capace in futuro di condizionare ogni sviluppo costituzionale e politico. Le varie alleanze internazionali, con la volontaria indeterminatezza delle loro promesse, non concessero niente al Marocco ma il movimento nazionalista riuscì a trovare un capo, il cui peso sul popolo e sulla Francia iniziò a farsi sentire.
Da anni molti leader arabi, fra cui Shakīb Arslān e il Gran Mufti di Gerusalemme, avevano manifestato simpatia per la Germania da cui si attendevano un appoggio alla loro causa. Si è parlato a lungo, spesso senza obiettività e superficialmente, dei cedimenti arabi verso l’Asse. Spesso se ne è trattato con atteggiamento polemico e ricattatorio nelle dispute postbelliche tra colonizzati e colonizzatori; talvolta si è cercato di ridimensionare il fenomeno riportandolo entro i limiti di una non corretta valutazione politica delle possibilità e dei mezzi per giungere all’indipendenza. Il problema riguarda anche il Marocco per la presenza nella zona settentrionale non solo della Spagna franchista ma, fin dall’inizio, dei tedeschi, con cui alcuni, come Ibrāhīm al-Wazzānī, collaborarono in modo aperto. Diverso il discorso per ‘Abd al-Khāliq Torrēs che si attivò nell’attività di propaganda per la liberazione del Marocco e per l’unificazione delle due zone, pensando di poter ottenere tutto ciò dalla Germania, scartando la Spagna. I nazionalisti furono tentati dalle possibilità che una vittoria dell’Asse avrebbe potuto offrire, eliminando le potenze coloniali. Se nella zona spagnola il problema fu semplificato e risolto in modo negativo dall’alleanza tedesco-spagnola, nella zona francese la tentazione non raggiunse mai la concretezza, essendo i nazionalisti fedeli al sultano.
Egli scelse di giocare la carta della fedeltà alla Francia perché era convinto che il Marocco non avesse niente da guadagnare da una vittoria dell’Asse e che una Germania vittoriosa avrebbe imposto una legislazione più dura nei protettorati di cui temeva volesse impossessarsi. Per lui solo nel caso di una vittoria francese in Marocco la situazione avrebbe potuto migliorare, considerato il debito di riconoscenza per il sostegno alla causa comune e per il contributo offerto in uomini e mezzi.
Muhammad V fu un eroe e un simbolo per il popolo e per le organizzazioni nazionaliste. Il Marocco rivendicò la continuità secolare della sua monarchia dal carattere islamico. La riconquista della libertà non trascurò affatto le proprie radici religiose, a partire dalla rivolta del Rif dell’emiro ‘Abd al-Krīm negli anni Venti.
La ribellione violenta iniziò nel 1921 fra le montagne del Rif dove ‘Abd al-Krīm costituì nel febbraio del 1922 la Repubblica delle tribù confederate del Rif. Da qui la resistenza berbera, iniziata contro la Spagna, si estese alle regioni sotto controllo francese e la lotta durò fino al 1926 quando i guerriglieri dovettero arrendersi di fronte all’azione coordinata delle due potenze europee. L’obiettivo all’inizio era l’unità del Rif da cui sarebbe nato uno Stato indipendente che, una volta consolidatosi, avrebbe proceduto alla liberazione dell’intero Marocco. L’esempio offerto dai berberi si sarebbe imposto all’attenzione di tutti gli altri popoli sottoposti al dominio coloniale. Riconosciuta l’impossibilità di far fronte con qualche ottimistica prospettiva all’attacco cui le sue forze erano sottoposte, per evitare un ulteriore e inutile versamento di sangue, ‘Abd al-Krīm decise di arrendersi il 27 maggio 1926. Rifiutò la possibilità di fuggire offertagli dagli inglesi, come le allettanti proposte della Spagna, desiderosa di vederlo capitolare alla presenza dei suoi ufficiali superiori, ma volle deporre le armi solo davanti ai suoi veri vincitori. Si presentò quindi, con i principali collaboratori e la propria famiglia, al colonnello Corap, confidando in una generosità che non ci fu. Dopo tre mesi a Fès, fu esiliato per vent’anni.
La resistenza nel Rif e in altre regioni del Paese continuò. L’immagine e il prestigio di ‘Abd al-Krīm diventarono leggenda. Aveva dimostrato che lottando con fierezza un giorno sarebbe stato possibile raggiungere l’indipendenza. La guerra del Rif dette impulso al movimento di liberazione. ‘Abd al-Krīm diventò «il faro nella notte della resistenza» per i marocchini ‘Abd as-Salām Bennūna, ‘Abd al-Khāliq Torrēs, Muhammad ibn al-Hasan al-Wazzānī, ‘Allāl al-Fāsī e Ahmed Belfareğ, ma anche per Ferhat ‘Abbās, Ahmed ben Bella, e altri come Messālī Hājj e Habīb Bū Rqība (Bourghiba).
La guerra del Rif fu l’evento da cui sembrò iniziare il movimento nazionalista. Finita la rivolta, cominciata sette anni dopo l’instaurazione del protettorato nella convinzione che non esistessero né potessero esistere obiettivi comuni tra colonizzatori e colonizzati, ebbe inizio un processo di elaborazione del pensiero nazionalista. Alcuni storici hanno voluto vedervi la prima, debole, manifestazione del nazionalismo marocchino moderno, mentre altri hanno considerato la rivolta solo come un periodo di gestazione di quest’ultimo. È indubbio che tale ribellione separatistica, autonomistica e a sfondo religioso, esercitò una notevole suggestione su alcuni giovani che sarebbero poi diventati i capi del nazionalismo marocchino. ‘Abd al-Krīm apparve l’iniziatore e il primo leader del movimento di liberazione, l’erede dei sultani che in passato si erano opposti agli europei.
Malgrado la realizzazione di alcune infrastrutture e l’inizio di un certo sviluppo economico, l’ostilità contro gli europei aumentò negli anni Venti. Pertanto nel 1930 dal regime di protettorato si passò all’amministrazione diretta: il Sultano conservò solo poteri religiosi, Parigi diventò il centro politico decisionale, mentre fu portata avanti l’esautorazione delle autorità musulmane nelle zone berbere.
Tra il 1912 e il 1934, gli anni della pacificazione francese, emerse l’esistenza di una coscienza unitaria e nazionale più profonda di quanto l’Europa avesse fino allora pensato. Il governo di Parigi fu sempre più costretto a fronteggiare la crescente ostilità e la resistenza del popolo marocchino che, al di là delle particolari tradizioni culturali trovò nell’Islām il più importante fattore di coesione. 
Il Marocco è governato da re Muhammad VI, che da alcuni anni ha promosso una politica di riforme politiche, economiche e sociali, assicurando una certa stabilità e riducendo le possibilità di manovra dei gruppi integralisti vicini ai salafiti. Il sovrano, figlio di Hassan II, è ritenuto dai sudditi il garante della pace, forse anche in considerazione del fatto che alla monarchia non sembrano esserci alternative praticabili, senza cadere nel fanatismo e nell’intolleranza registrati altrove. 

Quanto e come il movimento per l'indipendenza ha influito positivamente sull'attuale situazione del Marocco?

La monarchia ha preservato il Paese dall’instabilità caratterizzante altri Stati sconvolti dal fenomeno denominato «primavera araba». Nel febbraio del 2011 ci sono state proteste determinate sia dall’insofferenza di una minoranza nei confronti del potere del sovrano, sia dal desiderio di riforme costituzionali per bloccare la prassi per cui il monarca continua ad assegnarsi il potere decisionale su diverse questioni, pur disponendo di un governo e un parlamento. La contestazione ha assunto un profilo più moderato rispetto a quelle di altre nazioni grazie anche al consenso per un sovrano che ha annunciato la disponibilità a procedere sulla via delle riforme politiche, economiche e sociali. Ciò ha impedito ai gruppi integralisti di costituire una minaccia per il Paese. 
A seguito del referendum costituzionale del giugno 2011, il re è tenuto a indicare come Primo ministro il leader del partito di maggioranza relativa. Le elezioni parlamentari del novembre successivo hanno per la prima volta visto il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, formazione islamica moderata, guadagnare la maggioranza relativa, seguito dall’Istiqlāl e dal Raggruppamento nazionale degli indipendenti, in calo, e dalla forte affermazione del nuovo partito filomonarchico dell'Autenticità e della Tradizione. Muhammad VI ha cercato e cerca di coniugare istanze religiose e democrazia; ciò lo rende amato e rispettato dai sudditi che vedono in lui il garante della pace.

Stefano Fabei, docente di Materie letterarie e Storia all’Istituto di Istruzione Superiore «Giordano Bruno» di Perugia, è uno scrittore appassionato di storia, collaboratore di varie riviste come «Studi Piacentini», «Treccani Scuola», «I sentieri della ricerca», «Eurasia», «Nuova Storia Contemporanea», «Rassegna Siciliana di Storia e Cultura», «Storia in rete». Saggista, dal 1988 ha pubblicato una ventina di volumi, tra cui: La politica maghrebina del Terzo Reich, Guerra santa nel Golfo, Guerra e proletariato, Il Reich e l’Afghanistan, Il fascio, la svastica e la mezzaluna, Una vita per la Palestina, Mussolini e la resistenza palestinese, I cetnici nella Seconda guerra mondiale, Carmelo Borg Pisani: eroe o traditore?, La legione straniera di Mussolini, Operazione Barbarossa 22 giugno 1941, I neri e i rossi. Tentativi di conciliazione nella repubblica di Mussolini, Fascismo d’acciaio. Maceo Carloni e il sindacalismo a Terni (1920-1944), Il generale delle Camicie nere, «TAGLIAMENTO» La legione delle Camicie nere in Russia (1941-1943), Storia del Marocco moderno, Les arabes de France sous le drapeau du Reich, Le faisceau, la croix gammée et le croissant. 

Per ulteriori informazioni visitare il  sito www.stefanofabei.it

(pubblicata con l'autorizzazione dell'autore)


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