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sabato 23 gennaio 2016

Fame

di Giorgia Cafaro

(Copertina dell'album discografico "Think Tank" dei Blur)
Innanzi tutto chiariamo che la vita è un vero casino.
Non parlo degli psicodrammi da film o dei grandi misteri dell’universo. No, io parlo delle tragedie quotidiane e dei solitari tormenti che si accalcano sui vagoni della metro. Fantasmi convinti di essere gli unici a vedere. Pianti soffocati nell’ombra e labbra morse per nascondere sorrisi. Parlo di quel sottile filo di follia che a volte percepiamo in lontananza e altre seguiamo fino alla sua matassa. Tra tutti i corpi agitati dal respiro, chi sa dire cosa ci sia davvero nella parte più marcia e oscura del suo stesso animo, chi riesce a dipanare pienamente i dubbi del suo passato per quanto placida e banale sia la sua vita?
Oltre il finestrino dell’autobus il mare inghiotte il sole, l’intonaco si scrosta dalle pareti impregnate d’aria salmastra. Tutto crolla e io sto bene. Per la prima volta dopo più di quanto riesca a ricordare, sto bene.


Lo conobbi in autunno, mentre le foglie dalle bordature carminie si adagiavano al suolo. Non fu un impulsivo amore estivo che svanisce prima ancora dell’abbronzatura, fu avvolgente come l’inverno. Quando lo vidi mi fermai un istante, come un cerbiatto in mezzo alla strada che vede i fari di un’auto venirgli addosso. Era alto, folti capelli neri e la mascella squadrata. Ricordo come mi sembrarono larghe e forti le sue spalle sotto il maglione.
-Piacere, Lucas.
Disse offrendomi la mano dalla pelle olivastra.
-Cecilia, piacere mio.
Risposi ricambiando il gesto, senza staccare gli occhi dal suo volto così particolare.
Ci sedemmo a tavola insieme agli altri. La cena di Ognissanti, che seguiva la festa che facevamo ogni 31 ottobre, quell’anno si teneva a casa di Matteo e sua moglie. Lui era un mio grande amico d’infanzia e sapeva quanto mi sentissi sola e inutile. Lo fece apposta a metterci seduti vicini? Credo di sì, ma non gliene diedi mai colpa. Lui così tormentato dal desiderio di aiutare gli altri perché non riusciva a ricucire i suoi strappi: deluso, ferito e sempre in lotta col suo cuore ma ancora convinto che l’amore fosse la risposta.
Ero in imbarazzo, mi sembravano secoli che nessuno mi guardava e Lucas lo faceva con insistenza.
-Come sta tua moglie?
Chiesi a Matteo sperando di non essere indiscreta dato che non eravamo soli.
-Chi lo sa? È di nuovo tornata da sua madre.
-Mi dispiace.
-Va bene così, se le fa bene che lo faccia. Io mi tengo occupato. Ti ho già presentato Francesca?
Mi indicò una ragazza all’altro capo della tavola, piuttosto carina e dall’aspetto ordinato.
-Di già?
-Lei mi spezza il cuore ogni giorno, sono fedele al mio amore per lei ma non può chiedermi di esserlo a lei.
Tacqui, chi ero io in fondo per giudicare? Di sbagli ne avevo fatti molti, provo rispetto per chiunque affronti la sofferenza a suo modo.
-Vi siete divertiti ieri sera? - chiese Lucas passandomi la ciotola con uno dei contorni.
-C’eri anche tu?
-Certo, vi ho anche presentati ma non ho detto i vostri nomi, mi sa, - confermò Matteo.
-Io ero Deadpool col completo nero.
-Davvero? Io Harley Quinn con il pigiama.
In quel momento mi ricordai, fui così contenta che la mia pelle sia talmente esangue da non arrossire. Matteo ci aveva presentati davanti al punch, io avevo già bevuto e credo anche Lucas. Mi disse qualcosa su una particella, mi chiese cosa sapevo dirgli di un teorema di cui non avrei capito nulla nemmeno da sobria. Gli risposi solo: -Non me ne frega un cazzo.
La musica era alta e la maschera gli copriva il volto per intero, non contenta continuai:
-Sai parlare d’altro oltre alla chimica?
-No, al momento mi interessa solo quella e il rugby.
-Questo è più interessante.
-Ti piace il rugby?
-No, ma mi piacerebbe farmi un rugbista.
Scoppiai a ridere, bevvi un altro sorso e me ne andai.
Che figura di merda. Mi rendo conto sarebbe più poetico descriverla in altri termini, ma nessuno è più calzante.
Lucas sorrise.
-Sei stata simpatica.
-No, per nulla.
-È vero, ma diciamo che era l’alcol a parlare.
-Meglio, grazie.
Mi vergognai e abbassai lo sguardo sul mio piatto, avevo lo stomaco chiuso, feci a pezzetti una patata al forno e masticai il più lentamente possibile un boccone di arrosto.
-Voi come vi conoscete?
Chiesi prendendo coraggio, non avevo detto che ne avrei avuto?
-I nostri dipartimenti all’università sono vicini, abbiamo collaborato a un progetto qualche tempo fa.
Matteo parlando mi diede un calcetto sotto il tavolo che sembrava dirmi: “Ti sei scavata la fossa ma non sei ancora ricoperta di fango”.
-Insomma avete giocato con le provette insieme da bravi nerd.
Vidi le spalle del mio amico animarsi da un sospiro, forse perse le speranze.
-Diciamo di sì, - disse Lucas senza dar segno di imbarazzo. –Ci divertiamo a giocare al piccolo bombarolo.
-Ah giusto, ora l’università studia quello per racimolare fondi. Che tragedia.
-Non me ne parlare, volevo scoprire le leggi dell’universo non progettare di distruggerlo.
Matteo alzò gli occhi al cielo finendo di parlare, Lucas si schiarì la voce.
-A me piace. Da piccolo volevo fare il militare ma non mi presero. Mi piacciono le armi.
-Qualcuno non stava sveglio a lezione di storia, - dissi.
-Amo molto la storia e gli eserciti l’hanno fatta.
-Tu lo sai che la si studia per evitare di perpetrarla, non per prendere ispirazione dal genocidio?
-Non voglio distruggere il mondo, mi piacciono le cose pericolose.
-Cos’hai, sedici anni?
-Ma ne sa una più del diavolo!
Esclamò rivolgendosi a Matteo.
-Inventa un’arma più veloce della sua lingua e il dipartimento avrà abbastanza soldi per campare più di noi.
Ridemmo entrambi, lui mi guardava ancora, mi si sciolse il nodo allo stomaco e mangiai di gusto.
La serata andò avanti più o meno serena, Francesca era una ragazza un po’ sciocca e guardava Matteo come fosse un adone. Forse era una studentessa, scacciai il pensiero. Poi la mia attenzione era concentrata su un altro soggetto.
Lucas, dopo il dolce, tirò fuori dalla tasca un pacchetto di Philip Morris e andò sul balcone, lo seguii.
-Me ne offri una?
Lui si girò lentamente e mi porse una sigaretta, la misi fra le labbra e me la accese. Che gesto terribilmente di classe. Aspirai profondamente e, alzando lo sguardo, vidi una specie di piccolo tizzone ardente cadergli dalle dita, giù nel parcheggio.
-Cos’era?
-Nulla, - rispose e con noncuranza accese un’altra sigaretta, questa volta dalla parte del tabacco e non del filtro. Lo avevo distratto io?
-Tu invece che fai nella vita?
Mi chiese dopo un istante di silenzio.
-Lavoro in un ufficio, seguo l’archivio.
-Deve essere stimolante.
-È tranquillo. Mi piace starmene da sola. Tanto stanno chiudendo la mia sede e la prima testa a cadere sarà la mia dato che sono in apprendistato, meglio se non mi affeziono troppo.
-Capisco. Se non costruiamo qualcosa di cattivo entro la fine del prossimo anno ci toccherà la stessa sorte, addio borse di studio e dottorati di ricerca.
-Immagino che il precariato sia il nuovo Punk.
-No future for you, Nancy.
-No future, Sid.
Non sentivamo le voci degli altri, stavano nel soggiorno mentre al balcone si accedeva dalla camera da letto. Solo i rombi delle auto giù in strada facevano tremare il silenzio. Sentivo il suo profumo intenso di tabacco e fissavo il pozzo color pece dei suoi occhi. Le sigarette finirono, si avvicinò lentamente e mettendomi una mano sul fianco mi baciò una guancia.
-Puoi fare di meglio.
Sussurrai vicina al suo orecchio.
Mi strinse, mi baciò. Ricordo ogni brivido, i suoi capelli tra le dita, il suo corpo che mi premeva contro la ringhiera, il morso che gli diedi al labbro e il suo respiro caldo e affannoso.
Certe volte vorrei tornare lì con lui, alla perfezione assoluta di un bacio tra due sconosciuti che non si spiegano la reciproca attrazione.
Dopo un po’ tornammo dagli altri, facendo finta di nulla. Ogni tanto sentii la sua mano scivolarmi sul fianco. Ci ritrovammo da soli in cucina e mi rubò un altro bacio, allontanandosi subito prima che entrasse un altro ospite. Non ci scambiammo i numeri a fine serata, per quanto ne sapevo non ci saremmo mai più rivisti.
La cosa strana era che mi andava bene così, avrei cristallizzato quel ricordo nella mia memoria certa che niente potesse distruggerlo. Ma poi ricevetti la sua telefonata.
-Ho chiesto il tuo numero a Matteo. Non sapevo se farmi sentire o no, ma il fatto è che mi piaci.
-Mi piaci anche tu.
Risposi mentre un enorme sorriso mi tese le labbra. Continuavo a pensare a lui, mi ossessionavo col suo ricordo senza sperare di rivederlo e sapere che provava lo stesso era una sensazione bellissima.
Nonostante il passato, nonostante i dolori e le gioie, non mi ero mai sentita amata come in quel momento. A volte credo non mi ci sentirò mai più ma poi ricaccio il pensiero giù per la gola.
Iniziammo a frequentarci, non pecco di superbia nel dire che lui era davvero preso da me. Dopo pochissimi giorni mi definì la sua ragazza, diceva a tutti i suoi amici che si era fidanzato, mi fece conoscere i più stretti e spesso mi portava con loro al pub o sulla spiaggia. Non avevamo molti interessi in comune, a lui piaceva la storia, il modellismo e lo sport; tutta roba che a me non tangeva ma mi piaceva la passione con cui ne parlava. Ridevamo delle stesse cose, usavamo la stessa cattiveria nelle prese in giro, fin da subito c’erano giochi e scherzi solo tra noi. Andavamo costruendo un nostro linguaggio di metafore e sguardi, sapevo che entrando in una stanza avremmo notato lo stesso particolare.
A volte dovevano passare diversi giorni tra un incontro e l’altro perché entrambi eravamo presi dal lavoro, quando finalmente ci rivedevamo lui non sapeva bene come muoversi, cosa fare. All’inizio lo presi per distacco, poi capii che era nervoso. Che io lo rendevo nervoso. Non credevo di poter avere tanto effetto su qualcuno. Mi stringeva, mi sorprendeva, si soffermava a guardarmi dall’altro capo del tavolo mentre cenavamo. Quel suo modo premuroso di fare l’amore, sentivo il suo desiderio di avermi e di appagarmi. Riusciva sempre a farmi ridere, mi bastava averlo accanto per sentirmi ristorata. A Capodanno mi disse “ti amo”. Successe tutto così in fretta, misi da parte i miei dubbi e le mie paure, li ignorai perché preferivo correre con lui senza capire se stessimo davvero andando da qualche parte. Mi feci trascinare, mi persi.
Un giorno, tornata dal lavoro stanca e depressa, mi avvicinai al pianoforte, scoprii i tasti e li sfiorai ma non osai premere. Ero stata così occupata da quando lo conoscevo, anche se non avevo nulla da fare preferivo pensare a lui e fantasticare, progettare, piuttosto che suonare. Mi venne un brivido quando lo realizzai, decisi di ignorare la cosa, dovevo solo abituarmi all’idea.
Abituarmi all’idea, concetto spesso sottovalutato. Mi ero sempre affidata solo a me stessa, affrontavo da sola i miei drammi, raramente mi sfogavo con qualcuno. Ora era diverso, c’era qualcuno con cui dividere i momenti, il pensiero mi riempiva di gioia ma mi era del tutto estraneo.
-Ancora non mi pare vero che ci sei.
Gli dissi un giorno mentre stavo ancora abbracciata a lui nel letto.
-Nel senso che non ci credi?
-Già. Cosa ho fatto per meritarmi qualcuno che mi vuole così bene?
Lui si irrigidì, mi tolse il braccio dalle spalle.
-Mi da fastidio che non creda a quello che provo per te.
Mi spaventai, non era quello che intendevo.
-No, no aspetta non è questo quello che ho detto.
-Hai detto che non credi ancora che ti ami.
-No! Mi sono espressa male. Ci credo che mi vuoi bene, mi riesce difficile credere che sia reale nel senso che è troppo bello. È una cosa che sono più abituata a sperare che a vivere.
Non accennava a tornarmi vicino, nemmeno mi guardava in faccia.
-Non mi piace quello che dici. Sono paranoie tue e mettono in dubbio la mia sincerità.
-Ma io ti credo! Ti prego torna qui. Perché ti rivesti?
Si era alzato dal letto e stava prendendo i pantaloni. Perché non mi capiva? Era come se ormai avesse deciso che avevo detto una cattiveria e non si potesse spiegare il fraintendimento.
-Meglio se ti lascio ragionare da sola sulle tue paure.
-Ma io non voglio stare da sola, mi fa bene averti vicino. Abbiamo corso come un treno e mi ci vuole un attimo a riassestarmi.
-Corso? Se non ti sentivi pronta potevi fermarmi.
-Aspetta, stiamo degenerando. Sì, è successo tutto all’improvviso ma nessuno ci ha forzati, è stato naturale e va bene così. Mi piace dove siamo e come ci siamo arrivati.
-Non ne sembri sicura.
-Lucas, ti prego. Ti amo, torna a letto.
Lui mi guardò e il suo sguardo non mi piaceva. Era davvero così terribile chiedere del tempo per capire cosa stesse succedendo?
Decise di tornare a casa. Rimasi sola e la mia stanza mi sembrò molto più fredda.
La mattina dopo, prima di colazione, mi pesai, era di nuovo quel giorno del mese in cui mi costringevo a farlo. Andai in bagno e mi sedetti sul gabinetto chiuso a fissare la bilancia. Coraggio. Presi un respiro profondo, mi tolsi il golf e le ciabatte, ci salii. Avevo preso tre chili.
Tre chili di immensa gioia, volevo saltare e agitarmi, addirittura mi fermai perché non volevo muovermi troppo e perderli! Chiamai la psicologa che ancora ogni tanto vedevo, mi fece i complimenti e mi chiese cosa era cambiato.
-Sto con una persona, mi vuole bene, - le dissi quasi commossa.
-Ma allora la tua era solo fame d’amore, - rispose ridendo.
Velocemente mi lavai e vestii, avvisai al lavoro che facevo tardi e corsi da lui.
Citofonai e mi rispose.
-Lucas sono Lia. Mi dispiace per ieri, ti va di fare colazione?
-Ora scendo ma non ho molto tempo.
-Non importa voglio solo vederti.
Ritornò affettuoso come i giorni precedenti, dimenticai l’accaduto. Che sciocca ero stata.

Al lavoro ero sempre più contenta di starmene da sola, potevo immergermi nei miei pensieri. C’erano giorni in cui nessuno veniva a disturbarmi.
A volte scendeva il capo, cercava documenti e rapporti il che significava che dovevo mostrargli per la trilionesima volta il file dell’archivio, come risalire al documento in rete e accompagnarlo anche al faldone con l’originale. Ebbi l’istinto di prendergli la mano come si fa coi bambini. Se pensavo che stava in quell’azienda da molti anni più di me mi chiedevo chissà quante archiviste, poi lasciate a casa, avevano dovuto fare la stessa cosa.
Più spesso scendeva Dorica, un donnone che poteva effettivamente reggere un tempio con l’espressione rabbiosa di un cane da guardia. Tutto la stressava e deprimeva; a ogni “Come stai?” seguivano frasi incoraggianti come: “Al solito, male, andiamo avanti che indietro non si può”. Fosse stato per la tragedia cronica che le aleggiava intorno o per l’aspetto poco confortante avrei quasi provato simpatia per lei;  quello che non sopportavo era la supponenza con cui mi trattava. Curava i rapporti di fine transazione e i preventivi, me li portava nell’archivio e ogni volta mi ripeteva quanto fossero importanti, quanto fosse stressata e quanto poco si fidasse del mio lavoro.
-Chissà in tutto quello che non ti controllo quanti errori ci sono, - mi diceva. Megera rabbiosa, avrei voluto schiacciarle la testa a metà di un faldone e lasciarla archiviata sotto la lettera sbagliata, per spregio.
Quel giorno ricevetti una telefonata interna, il capo mi chiedeva di salire nel suo ufficio, nulla di buono.
Mi disse che in base ai recenti cambiamenti e tagli in particolare a seguito del cambio Country Manager teneva ad avvisarmi che ero caldamente invitata a mandare curricula in giro.
-Come saprai in questa sede, essendo piccola, non abbiamo mai avuto un lavoratore affetto da disabilità come però impone l’articolo 18; il nuovo manager lo vuole fortemente e gli daremo il tuo lavoro. In più, sai come da prima che arrivassi andiamo avanti a stagiste e quanti colleghi non hai conosciuto perché trasferiti, licenziati, mandati in pensione anticipata. Ti dissi già all’assunzione che nulla era certo.
Rimasi interdetta, non tanto perché mi stava lasciando a casa quanto perché assicurava che nessuno dei miei colleghi era un effettivo minorato mentale.
-La ringrazio di avermi avvisata. Il mio contratto scade fra sei mesi, arriverò alla fine?
-Sì, quello sì, non preoccuparti.
Vivevo da sola, l’economia era in crisi, ormai avevo ventotto anni di cui quattro spesi in un posto deprimente che però mi dava l’unica esperienza significativa, non ho una laurea né contatti sfruttabili, nessuna prospettiva se non quella di tornare da mamma e papà che, per altro, non avevano nessuna voglia di accogliermi. E chi si preoccupa?
Scesi nel mio archivio, mi nascosi dietro uno scaffale sedendomi rannicchiata con le ginocchia al petto. Chiamai Lucas, era l’unica cosa bella a cui riuscivo a pensare.
-Mi hanno detto che tra sei mesi mi licenzieranno.
-Beh ma te lo aspettavi.
-Sì è vero, ma sai…
-Poi non ti piaceva più di tanto l’ambiente.
-Era un posto, non sono ambiziosa.
-Fai male. Ora rilassati e pensa a cosa devi fare.
-Lo so cosa devo fare non ho bisogno me lo dica tu. Volevo solo un po’ di conforto.
-Dai, coraggio.
-Va beh, ci sentiamo, ciao.
Riagganciai. Era sempre stato così stronzo?
Pranzai con Eleonora, l’unica collega che mi piacesse sul serio. Una ragazza alta dai capelli arruffati e lo sguardo furbo, chetamente arresa alla tragicomicità della vita, che si sentiva più a suo agio nella solitudine di un libro che con chiunque altro.
-Sul serio? Sapevo che le cose andavano a rotoli ma…
-Ma poi diventano vere e lo realizzi.
-Mi dispiace.
-Fa niente. Me la caverò in qualche modo.
-I tuoi genitori ti possono aiutare?
-Non abbiamo ‘sto gran rapporto; dubito mi lascino in mezzo a una strada in ogni caso.
Addentò il suo panino pensierosa, sinceramente dispiaciuta per me. L’empatia: che meraviglia, la mia era completamente spanata.
-Almeno con il fidanzato, Luca?
-Lucas, è cileno. Tutto bene, qualche screzio ma siamo ancora felici.
-Screzio?
-Sì. Una settimana fa abbiamo mezzo litigato perché gli ho detto che ancora mi devo abituare ad avere qualcuno nella mia vita e sembrava gli avessi detto che non mi amava, è stato brutto. Poi oggi l’ho chiamato per un po’ di consolazione ed è stato utile come una trivella su una nave che affonda.
-Insomma, non è uno che ascolta un gran che.
-Già, mi sa che è quello il punto.
Il pomeriggio tornai a casa senza più sapere nemmeno cosa provavo. Credo di aver avuto paura, paura che tutto mi sfuggisse di mano di nuovo, che mi sarei ammalata di nuovo. Mi sedetti sul divano, guardai il pianoforte. Gli spartiti mal riposti appoggiati sopra di esso, lo sgabello foderato di verde, i pedali dorati ormai opachi. Mi dava la stessa sensazione di un vicolo buio e desolato.
Trascorse un altro mese, Lucas alternava insensata dolcezza a spietata freddezza. Avevo smesso di chiamarlo se mi sentivo triste perché non mi ascoltava, non gli parlavo mai né di musica né dei film che mi piacevano o delle uscite con le mie amiche. Ogni volta cambiava argomento, mi interrompeva, parlava di cose successe a lui. Credevo avesse bisogno di spazio e a me non disturbava farmi più piccola. Anche la passione iniziale si era un spenta, mi dissi che era normale che dopo un po’ subentrasse la monotonia, in fondo era solo più tranquillo non meno bello. Mi scriveva tutti i giorni al mattino appena sveglio e la buonanotte la sera, mi scriveva stupidaggini durante il giorno solo per farmi sapere che mi pensava. Gli suggerivo gite e uscite più stimolanti ma non voleva mai.
-Io non ho un soldo, tu tra poco sei a casa, non possiamo spendere. In più non abbiamo mai tempo e non posso permettermi di rinunciare a troppe notti di sonno.
Diceva. Così risoluto e pragmatico. Cominciai a chiedermi se non fosse solo l’innamoramento iniziale a essere svanito, se non fosse qualcosa di peggio che era cambiato.
Chiamai Matteo e uscimmo insieme a bere una birra, sua moglie non era ancora tornata.
-Come stai?
-La solita merda, che vuoi che ti dica? Mi dice che le manco e sistemeremo le cose ma poi non torna a casa.
-Se ti fa stare così male forse dovreste renderla ufficiale.
-Cecilia io la amo. Potrei dirti che il divorzio non è facile, che i beni si devono dividere, che lei sta male e non voglio darle un altro dispiacere e tutto il resto. Ma la verità è che la amo e se lei mi dice che vuole sistemare io mi rimbocco le maniche.
Sorrisi, gli presi la mano e la strinsi.
-Con Francesca invece?
-Solo sesso, lo sai. Credo si stia affezionando quindi a breve la mollerò. Tu invece? Come stai?
-Tutto bene… Con Lucas le cose si sono fatte un po’ strane ma quando ci vediamo stiamo bene quindi credo sia okay. Forse dovrei affrontarlo di petto oppure aspettare e vedere se si risolve. Non lo so.
-Cosa è successo?
-Non saprei dirti di preciso, sono particolari che man mano noto. Tipo che se propongo una cosa io non si fa o se ho bisogno di lui non ha tempo, però se è triste o arrabbiato mi chiama. Se corro da lui non va bene, se lo lascio solo nemmeno. Poi ogni tanto cerco di aprirmi, di dirgli le mie preoccupazioni o raccontargli cose di me, lui si ritira fino ad andarsene.
Matteo distolse lo sguardo, arricciò le labbra.
-Per me è che vi state ancora conoscendo, magari è fatto così. Credo sia solo egocentrico, ti chiederà di dare più di quanto dia ma non significa non ci tenga.
-Può anche darsi.
La domenica successiva lo vidi e la situazione tracollò di nuovo.
Gli dissi che avevo un pomeriggio libero in ufficio, che sarei potuta andare a trovarlo in università per pranzo, conoscere i suoi colleghi e il resto, per poi lasciarlo lavorare.
-Meglio di no, non voglio che vieni a distrarmi; poi ho poco tempo e sarebbe complicato, non vorrei ignorarti.- Fece una pausa, mi guardò. -Ci sei rimasta male?
-Sì, molto. Mi parli sempre dei tuoi colleghi, ma a loro non dici mai nulla di me e non vuoi che li conosca. Sento che ci sono tante cose che non mi dici. Soprattutto molte che non mi chiedi.
-Ci sono cose che non voglio tu sappia.
-Come faccio a fidarmi di te allora? Io cerco di conoscerti e anche di aprirmi ma sei così occupato a nascondere i tuoi segreti che non mi hai mai chiesto un accidenti del mio di passato. A volte sei dolce, altre freddo, non ci sei mai, se hai la luna inversa mi tratti male e poi dici che mi ami. Non ti capisco.
-Nemmeno io capisco te e la cosa mi fa allontanare. Hai le tue paranoie, dici che ti devi abituare a noi e io non so come prenderla.
Non mi guardava in faccia, io lo fissavo ribollendo di rabbia e delusione.
-Potresti venirmi incontro invece che vedere solo te stesso. Non mi fido più di te.
-E io non ti trovo più attraente come prima.
-Vaffanculo.
Sbattei anche la porta per finire con grazia, per la prima volta lo odiai profondamente. Mi stava rendendo gelosa, mi sembrava di non essere mai abbastanza per uno che non dava nulla. Quanto avevo perso di me per fare posto a lui? Avevo perso la musica per questo?
Corsi a casa, piansi, mi sentivo stupida e ferita. Non avrebbe dovuto essere così, era il primo ad avermi fatta stare bene. Gli altri non erano riusciti ad amarmi né io avevo provato troppo affetto per loro, credevo di non esserne capace. Pensavo di non essere fatta per donarmi a un’altra persona e che nessuno avrebbe avuto voglia di soffrire per me. Per quello mi sentivo sola, inutile, volevo solo scomparire.
Lui era stato capace di farmi rivalutare tutto in così poco tempo, non solo avevo qualcuno che mi voleva ma riuscivo a mettermi da parte per lui. Ora non sapevo nemmeno chi fosse l’uomo con cui stavo. Forse nemmeno ci stavo più.
A notte fonda mi squillò il telefono.
-Lia sono qua sotto, mi apri?
-Per me puoi crepare.
-Ho detto un sacco di stupidaggini. La verità è che non ho mai provato quello che provo per te e non so come si fa. Mi lamento sempre che è tutto un disastro ma tu sei l’unica cosa bella e la sto rovinando. Fammi entrare per favore, ti farò fidare di nuovo di me. Ti amo, scusa se non sono capace a dimostrarlo.
Aprì il portone principale e lo aspettai sulla porta del mio appartamento.
-Hai anche detto che non ti piaccio più.
Non rispose, mi baciò e basta chiudendo la porta. Tornammo a comportarci come prima ma non avevo perdonato, ora lo so, facevo finta di non vedere ma non avevo perdonato.
Appena provavo a raccontargli qualcosa, o lui accennava alle uscite monotone, ad un mio difetto per piccolo che fosse mi risalivano la rabbia e il disgusto; come un boccone amaro che non riuscivo a digerire e mi tornava su per la gola. Gli ringhiavo contro prima ancora che dicesse qualcosa di sbagliato.
-Chiamami quando ti passa.
Se ne andava. Mi sentivo ancora più sola. Credo sia stato a quel punto che smisi di nuovo di mangiare.

Forse gli piacerei di più se tornassi come prima, forse anche lui tornerebbe quello di prima. Ero sempre triste, arrabbiata, quel nodo allo stomaco che la prima volta aveva sciolto con uno sguardo era tornato ancora più stretto. Svenni in ufficio, se Eleonora non fosse venuta a chiedermi di pranzare insieme non so quanto ci avrebbero messo a trovarmi, chiamarono l’ambulanza.
Rimasi una notte in osservazione con la flebo attaccata al braccio, volevano chiamassi i miei genitori e che mi ricoverassi ma non volli. Feci chiamare Matteo invece, lui avrebbe ascoltato me e non i dottori.
-Ma che cazzo fai?
Comparve sulla porta come un fantasma, gli occhi contornati dalle occhiaie e i vestiti stropicciati.
-Ciao.
-Ciao, ciao… Credevo l’avessimo finita con questa storia.
-Mi dispiace.
Mugolai, mi veniva da piangere ma ero troppo debole.
-Non devi chiedere scusa a me. Perché ti fai questo?
-Non sono io, non lo faccio apposta. Mi si forma un nodo e il cibo non passa, non sento più la fame.
-Lucas? È colpa sua?
-No, è colpa mia. È il mio corpo e ne ho perso il controllo.
Si sedette sul bordo del mio letto, mi mise una mano sulla spalla e mi diede un bacio in fronte.
-Non voglio mi ricoverino, non voglio mi diano di nuovo le medicine. Sono stata meglio e lo farò ancora.
-Va bene, vieni a stare da me per un po’.
Rimase sulla sedia di fianco a me tutta la notte, nella stanza del pronto soccorso, e il giorno dopo mi portò a casa sua. Lucas non lo avrebbe fatto, oppure sì?
Mi preparò uova e pane tostato per colazione, rimase con me per assicurarsi che finissi tutto. Ci misi quasi mezz’ora ma ce la feci, poi però lo stomaco prese a farmi male e mi venne la nausea.
Non lavorava quel giorno e stette a casa, riuscii a consumare pranzo e cena anche se in porzioni piccole di cibi leggeri.
-Lia, sii sincera, ti tratta male? All’inizio mi sembravi felice ma ora vedo della tensione.
-Quando siamo insieme è dolce e carino, mi fa ridere, sto bene. Poi però mi lascia sola con le mie paure, mi dice che non gli piaccio, ha smesso di presentarmi con orgoglio anzi sembra vergognarsi… Spesso però sono io che voglio mi dica qualcosa di brutto.
-Perché dovresti volerlo?
-Non lo so, forse voglio portarlo al limite per vedere se rimane. Sono una brutta persona.
-Ognuno è egoista in amore, anche quando diamo tutto. Lo so che non lo fai apposta, che non è questione di dieta estrema la tua. Ma ricordati che il nodo che senti sta solo nella tua testa, sforzati di mangiare qualcosa.
-Non dirlo a Lucas però, lo farò io quando sarò pronta.
Annuì e sparecchiò la tavola. Presi il telefono e vidi diversi messaggi non letti, anche due chiamate. Tutte di Lucas che non sapeva cosa mi fosse successo. Mi si scaldò il cuore.
-Pronto? - lo chiamai.
-Che fine avevi fatto? Mi sono preoccupato.
-Scusa, ho avuto un’emergenza in famiglia e sono rimasta dai miei, non sono riuscita ad avvisarti.
-Capisco. Non sparire mai più così, non sapevo che fare.
Sorrisi mordendomi un labbro, non volevo sentisse quanto ridicolmente felice mi rendeva il fatto che fosse in ansia per me. Ovviamente non mi chiese nulla né sulla mia famiglia né sull’emergenza.
Dopo due giorni in cui ero riuscita a mangiare senza rimettere tornai a casa, poggiai la sacca coi vestiti sul divano e mi sedetti al pianoforte. Sopra di esso stava la finestra, la aprì lasciando che i caldi raggi del sole di Maggio entrassero nella stanza. Un filo di vento fece volare in terra uno spartito, lo appoggiai sul leggìo e prendendo un respiro profondo suonai.
Fu come riaprire una diga che a breve sarebbe tracimata. Le note che mi scorrevano sulle dita leggere e persistenti come pioggia, mi mancavano così tanto. Io mi mancavo così tanto, come avevo fatto a perdermi?

La settimana dopo tornai al lavoro, mancavano meno di tre mesi alla fine del contratto e io non avevo ancora trovato un ripiego. Pensavo ad altro. A Lucas, al mistero dell’esistenza, al cibo, a Matteo, a quanto mi mancava suonare ma avevo di nuovo smesso. Dopo quell’unica volta di nuovo cercai di sedermi sullo sgabello verde, provavo ma incespicavo e dopo poco mi ritrovavo ferma a fissare il vuoto preferendo guardare la tv o andare a letto.
Non avevo mai voglia di niente. Uscivo con le amiche; con Lucas che si era calmato di nuovo, riuscivo anche a scherzare ma sotto sotto avrei preferito essere da un’altra parte. Dove, di preciso, non saprei.
-Non hai più la voce di prima.
Gli dissi una notte mentre si era girato dall’altra parte per dormire. Con voce assonnata mi rispose che non capiva. Mi aveva chiamata uscito da lavoro dicendo che aveva bisogno di parlare, che era una brutta giornata e stare con me lo calmava. A cena mi aveva raccontato dell’esperimento fallito e dei calcoli non riusciti, del direttore del progetto che parlava come fosse semplice ma non lo era. Si lamentava, mi diceva che io non potevo capire e doveva solo accettare che tutto fosse un disastro. Alla fine ero riuscita a cambiare argomento, farlo ridere e si era calmato.
-Prima avevi una voce particolare in certi momenti, un sussurro grave con cui mi parlavi quando avevi voglia di fare l’amore. Ora non lo hai più.
-Così? - disse con voce strozzata.
Sorrisi scuotendo la testa. Fece un altro paio di tentativi per farmi ridere e ci riuscì. Dormimmo abbracciati quella notte, sentivo il suo respiro calmo sulla schiena e mi feci piccola per stargli più vicino. Premevo il braccio con cui mi avvolgeva contro il petto, baciandogli le dita, per quanto lo stringessi mi sembrava sempre lontano.
Mi tornarono alla mente tutti i ricordi dei primi mesi insieme, i momenti romantici e felici, poi affiorarono i litigi e le incomprensioni e le volte che mi aveva ignorata e quelle in cui lo avevo incolpato del nulla.
Solo un brutto periodo, pensavo, già ora siamo più tranquilli. Io mangio, lui mi guarda, stiamo bene e non voglio che finisca.
Le bugie che una si racconta.
Presto tornarono i problemi. Spariva per giorni dicendomi che doveva stare solo per riflettere, chiesi se per caso non c’era un’altra e mi diede della paranoica, poi tornava dicendo che mi amava e si sarebbe fatto perdonare. Avrei preferito mi picchiasse.
Quando spariva così faceva la mia fame, quando tornava riuscivo a mangiare. Non facevo in tempo a elaborare una sensazione che cambiava, mi sentivo in preda alla marea. Un giorno venne sotto casa a dirmi che stava lavorando a un progetto per l’esercito di cui poteva parlare poco, che era il suo sogno ma io ero ugualmente importante, quindi “Scusa se non ci sono stato ma ti giuro che ho capito quanto sei importante.”
In quel momento mi venne fame, molta fame. Andammo fuori a cena e presi i piatti più abbondanti, dolce compreso. Tornati a casa mi venne la nausea, vomitai tutto e passai la notte coi crampi allo stomaco. Rimase con me, non sapevo come spiegargli che i crampi erano di fame, nemmeno io riuscivo capirlo.
La mattina dopo ancora sentivo la pancia rumoreggiare, aprii il frigo ma nulla, non avevo voglia di nulla ma una fame straziante. I giorni passavano ma quella sensazione spaventosa non passava.
Ero ancora più nervosa e irritabile. Dorica venne a portarmi la sua roba da archiviare e mentre si lamentava di chissà quale stupida faccenda io gridai: -Mio Dio, ma a chi importa?
Mi vergognai subito.
-S… scusa Dorica, non volevo. Non so cosa mi succede, perdonami.
La sua espressione si fece ancora più cupa, disse: -Non fa niente.
Se ne andò di fretta e non la vidi per tutta la settimana.
Andai da Matteo a chiedere consiglio ma mi disse che forse erano voglie o un altro disturbo psicosomatico.
-Magari è Lucas, senti che non ti dà più quello di cui hai bisogno.
-Ma no, ce la sta mettendo tutta, lo vedo. Credo stia fingendo. No, non avrebbe senso.
-Forse non è abbastanza.
Quelle ultime parole mi si impressero nella mente.
Andò avanti un altro mese. La moglie di Matteo era tornata a casa e lui era più felice di un bambino a Natale. Mi parlò di quanto gli era mancata, di come era bello vederla dormire nel loro letto, di quanto avrebbe lottato perché non se ne andasse mai più. Li vidi insieme e quasi mi commossi, potevo sentire persino le palpitazioni del suo cuore quando lei gli sorrideva.
Pensavo a loro e quella sensazione vorace di insoddisfazione crebbe. Tentavo di nasconderla, cercavo di rimanere calma ed essere dolce. Finì il mio contratto e ancora nessun lavoro. Salutai tutti i colleghi con un abbraccio, anche Dorica che sembrava avermi finalmente perdonato lo scatto d’ira.
Tornai a casa e rimasi al centro della sala guardandomi intorno con sguardo febbrile.
Pensai di suonare ma alla prima nota stonata lanciai in aria tutti gli spartiti e ribaltai lo sgabello. Accesi la televisione ma qualunque voce mi dava ai nervi. Provai a uscire per una passeggiata ma ogni minimo particolare della realtà mi infastidiva. Guardavo le vetrine ma non avevo voglia di nulla, riuscivo solo a pensare che avevo fame e non sapevo di cosa. Cominciai a correre e arrivai fino a casa di Lucas.
Suonai e mi aprì, salii le scale.
-Ciao Lia.
Mi disse con un sorrisetto tirato.
-Dimmi la verità.
Mi guardò perplesso e spaventato.
-Cosa intendi?
-Tu non mi ami più, amore mio, lo sappiamo entrambi.
-Ma no, era solo un periodo. Ci sto lavorando, devo accettarti per quella che sei.
-Quella che sono? Ma cosa ne sai tu di me? Cosa io so di te?
-Ti conosco.
-Puttanate.
Si fermò, mi chiese di sedermi e parlarne con calma ma io ero troppo agitata. Traboccavo di energia e rabbia e rancore e fame di qualcosa che non esisteva.
-Tu non sai nemmeno che suono.
-Suoni?
-Suono il pianoforte e sono brava, ma da quando sto con te ho smesso. Perché c’eri sempre tu, c’eri tu anche quando sparivi. Dove sono io in tutto ciò?
-È per questo che sparivo, Cecilia, non ti si può parlare quando sei immersa nelle paranoie.
-Tu mi ci affoghi nelle paranoie! E poi mi lasci sola, mi lasci sempre sola anche se dovevi amarmi.
-Mi dispiace. Ci ho provato ma non riesco a rimettere le cose a posto. Quindi è finita.
-Perché fai così? Perché mandi tutto a rotoli? Io ci credevo davvero in te, ho fatto tutto quello che volevi senza chiedere mai nulla in cambio.
Gridai, mi bruciavano gli occhi e il sangue ribolliva, cominciai a lacrimare.
-Cosa vuoi che ti dica? Hai un bisogno disperato di dimostrare amore e te l’ho lasciato fare anche quando il mio aveva cominciato a svanire.
Parlava lento e calmo, come lo odiai.
-Voglio che ti arrabbi, voglio che gridi. Per una volta non voglio essere l’unica a morire, tu mi amavi?
-Sì, davvero. Ti ho amata tantissimo anche se non come meritavi.
-E allora disperati, ho bisogno che distruggi tutto. Smettila di arrenderti così a qualunque cosa! La tua vita è un fallimento, la tua donna si sente sola e tu ti arrendi. Sei un incapace.
-Hai ragione. Non posso vederti così ti prego. È meglio se vai.
-Affrontami! Guardami negli occhi mentre ammetti che è finita, quando mi dicevi “ti amo” non lo facevi mai.
Il suo volto si fece contrito, lo sguardo incredibilmente triste ma finalmente lo alzò incrociandolo col mio.
-Non ci riesco.
Mi avvicinai, gli presi il volto tra le mani, avevo chiuso gli occhi e le nostre fronti quasi si sfioravano.
-Dimmi che non provi più nulla Lucas, ho bisogno di sentirtelo dire.
Lo sentii tremare, mi baciò. Avvolse le braccia attorno alla mia vita, lo sentii forte e vicino come non riuscivo da tempo. Mi ricordò quella prima volta sul balcone, mi strinsi a lui sentendo come fremeva e quella fame che non riuscivo a placare esplose, irradiandosi per ogni millimetro del mio corpo. Gli tolsi la maglia e lui mi sfilò il vestito, mi spinse contro la parete e gli graffiai la schiena. Gli baciai il collo sentendo le sue mani afferrarmi le cosce, lo baciai di nuovo ma ancora non era abbastanza. Il suo respiro affannoso, il suo profumo di tabacco, le sue labbra che percorrendo il mio collo scesero sulle clavicole arrivando al seno. Lo spinsi facendolo girare, mettendo lui con le spalle al muro e gli morsi il labbro. Uscì del sangue, era caldo, mi fermai a leccarglielo dal bordo della bocca e quella voglia che da settimane mi straziava parve placarsi, per poi invadermi con ancora più decisione. Gli morsi il collo con violenza, strappai la carne, gli graffiai le braccia e il petto fino a sentirgli le ossa. Quel sapore dolce e speziato, il sangue caldo mi colava giù per la gola. C’erano grida? Cercò di ribellarsi? Non ricordo, non lo sentii. Ero pervasa da un piacere che non era mai stato in grado di darmi, anzi che io non ero mai riuscita a concedermi. Lo divorai fino alle ossa. Appagata, la fame se ne andò rubandomi tutta l’energia di cui mi aveva colmata, svenni.

Mi svegliai, non saprei dire quanto tempo dopo. Era mattina, mi rivestii e andai alla fermata dell’autobus per tornare a casa. Salii e mi sistemai sul sedile vicino al finestrino. Vedevo il portone del suo palazzo, la sua finestra si aprì e lo vidi sporgersi e accendersi una sigaretta. È l’ultimo ricordo che ho di lui.



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