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martedì 13 ottobre 2015

“La Bufera Infernal che Mai Non Resta”

di Alessia Ghisi Migliari  

Pyotr Ciajkovskij (o Tchaikovsky)

L’anima ha stagioni – perché vive cicli e momenti diversi.

E ci sono stati numerosi artisti – davvero molti – che hanno provato per tutta la vita il devastante alternarsi di queste fasi della mente, senza riposo.
Pyotr Ciajkovskij (o Tchaikovsky), cosa non originale, ha pagato la sua rara creatività e la sua preziosa ispirazione con un’esistenza spesso infelice e infine per lo più drammatica, allungando inoltre la schiera di quegli egregi nomi d’arte che hanno provato in giovane età la tragedia della perdita di un genitore (per quanto cosa non rara, in un’epoca che non aveva ancora le conoscenze mediche di oggi).



Era nato nel maggio 1840, a quasi mille chilometri da Mosca, lungo le immense distanze russe; figlio di un ingegnere e una donna dall’emotività spiccata e fragile, il bambino aveva con sè, lui pure, già una forte propensione musicale, con una passione per il pianoforte che gli veniva dalla madre.

Nei luoghi freddi sembra che la musica cresca meglio, talvolta; specialmente in soggetti che hanno già una vena romantica, in loro. Vena coltivata con convinzione e particolare sensibilità da Fanny, la governante verso la quale Pyotr avrebbe sempre provato un affetto profondo sincero – un controaltare della figura materna, cui era legatissimo, ma che era anche estremamente complessa e sofferente.
Ed è proprio la mamma a morirgli, quando è all’inizio dell’adolescenza: colera – e il ragazzino compone in sua memoria.
Eppure, molto pragmaticamente, il suo avvio nel mondo del lavoro è nel settore impiegatizio; occorre però poco, a Ciajkovskij, per rendersi conto di non poter trascurare quello che è quasi un istinto: più che ventenne entra al conservatorio, dove impara sotto lo guida di Rubinstein, per poi ottenere, pochissimi anni dopo, una cattedra.
Potere del genio; ma sarebbe stato assai rischioso, dedicarsi all’insegnamento: avrebbe tolto tempo ed energie. Servirebbe dunque un mecenate – in questo caso, una fervente ammiratrice – che si proponga di finanziare le necessità dell’artista, per consentirgli di vivere a tempo pieno con le proprie intuizioni.
Le sue composizioni, ricamate da quegli stati d’animo così intensi, si susseguono a ritmi serrati – la sua vita privata, più statica e silenziosa, si fa sentire poco.
Due le figure femminili essenziali: la quasi stilnovistica e angelicata Nadezda (sua patronessa) e la moglie Antonina.
Con la prima intrattiene una lunghissima corrispondenza in cui si confessa e ascolta le confidenze di lei – non si incontreranno mai, non volendolo (una figura eterea, impalpabile e quasi inesistente, da idealizzare e che non può ferire); l’altra, impalmata forse per frenare i pettegolezzi sulla sua omosessualità, resterà sua compagna per poche settimane: un vero e proprio disgusto fisico della di lei figura, a quanto si sa.
E se la neo sposa finisce in manicomio, anche il musicista viene inviato a curarsi in Svizzera: quasi delira e il suo stato psicologico è notevolmente alterato.
La sua quasi certa omosessualità (tutto sommato “sopportata”, nella Russia dell’epoca, se non sventolata ai quattro venti) mai accettata ha avuto forse un ruolo fondamentale nel suo enorme disagio – questa impossibilità di essere, liberamente, sè.
E, non a caso, nei suoi personaggi l’amore è una realtà sofferta, nella quale si è quasi incatenati.
Da qui in poi inizia un costante viaggio per l’Europa e la Russia – mai fermo in unico luogo.
Fatica a dormire, ha periodi di profonda prostrazione e svalutazione di se stesso, malgrado la sua fama cresca a ritmi notevoli, con tanto di riconocimento da parte dello zar: ma il “ragazzo di vetro”, titolo di un romanzo-biografia di Pyotr (autrice è N. N. Berberova) e appellativo che gli dava la cara Fanny, non avrà vita lunga.
Al di là della gloria, muore ad appena cinquantatre anni a San Pietroburgo, nel 1893.
Sulle cause, diverse teorie: molto probabilmente una fine intenzionale, visto che più volte aveva provato togliersi la vita.
Oppure, il colera, contratto bevendo acqua.
Ancora: un complotto per evitare che dichiarasse la propria omosessualità.
Ragazzo di vetro, dunque: da trattare con delicatezza.Ad appena dieci anni, convincendosi d’essere la causa della morte di un amico, tenta il suicidio. Lo stesso avverrà anni dopo, quando, in pieno autunno, si getterà nel fiume.
Magari più “richieste di aiuto” che altro, come va di moda dire: in ogni caso, la sua incapacità di prendere sonno, la sua inappetenza, i suoi continui momenti di scoraggiamento, rifiuto, introversione, sofferenza: e poi l’estasi della creazione, l’attimo fugace della vittoria, la presenza di episodi quasi allucinatori – un umore devastato, incontrollabile, consolabile solo nell’arte.
Oggi Pyotr viene spesso elencato nella lista di talenti afflitti da disturbo bipolare, una realtà pressocché invalidante, nella quale un notevole stato depressivo si accompagna a episodi maniacali (molto più brevi), in cui vi è un’alterazione del comportamento, con un’emotività espansa e difficile da contenere.
Il senso di vuoto, fallimento, l’incapacità di reagire a qualunque stimolo si alterna, in brevi ondate, a picchi di opposta natura: in ogni caso, una malattia che fa salire di 30 volte la possibilità di suicidio (anche se sono la minoranza, i casi nei quali il disturbo è perennemente presente senza attimi di quiete).Le stagioni dell’anima dunque: stagioni frastagliate, in una terra fredda, in pieno Ottocento.
Un malessere che si palesa subito dopo la morte della madre – presto, dunque.
Un’assenza penosa – lui, che le assomiglia tanto, inquieto come lei, afflitto da un’instabilità che riesce a diventare musica (e che musica).
E ritorniamo sul sempre ripetuto tema dell’arte come malattia e l’arte come guarigione – il sentire abbracciato in una composizione, rinchiuso affinchè non straripi: la mancanza dell’amore di una madre, cercata fino alla fine (anche nel fantasmatico rapporto con la sua amica epistolare), e la malinconia delle sue note.
La natura come balsamo per le ferite interiore, ma anche come specchio di un’immagine di sè talvolta un poco in frammenti: “Amo immensamente i giorni grigi come oggi”, scrisse.
Giorni nei quali il sole non deforma la campagna e la mostra per quella che è – attenua i colori, colori mai modulati in maniera pastello, nel compositore.
E vien da ricordare il verso dantesco che viene rappresentato nella prima parte della sua “Francesca da Rimini”, fantasia sinfonica che creò quasi di getto:
“La bufera infernal che mai non resta”. Quasi un epitaffio.
A noi rimane arte sublime, una musica che attraversa i secoli e – nemmeno lei – “mai non resta”.

http://ucm-fishing.com/music/blog2.php/il-lago-dei-cigni-ciajkovsky
www.youtube.com/watch?v=EaOyP2CWhOQ




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