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martedì 16 giugno 2015

Quando l'Arte salva la Vita


Di Alessia Ghisi Migliari


Immaginate di avere un talento – un dono, chiamatelo come volete.
Lo avete in somma misura: non siete solo capaci, siete grandiosi.
E’ la vostra vita, il motivo primo, la spinta, l’identità.
E accade poi qualcosa che rischia, lentamente, giorno dopo giorno, come spada di Damocle, di togliervi tanta fortuna, la passione tutta, l’eccellenza.
Beethoven divenne sordo, ma non fu abbastanza, per fermarlo.
Ludwig van Beethoven nasce a Bonn nel dicembre 1770, in una famiglia numerosa.
Suo padre è un cantante lirico della corte del principe di Colonia, ma non ha in sè i mezzi per insegnare abbastanza, al ragazzino.
Appreso quanto può, cambia una serie di maestri iniziando a dare, ancora bambino, concerti che mostrano la sua precocissima abilità – inizia a comporre a nemmeno dieci anni e crescendo insegna pianoforte a rampolli non altrettanto dotati.


Appena tredicenne diviene organista presso l’arciduca Massimiliano Francesco, ma il giovane scalpita, in diversi sensi: non ama avere padroni, possiede un senso dell’indipendenza quasi selvaggio e, per quanto nella sua professione serva un mecenate, è importante per lui mantenere un’individualità ben definita: ama lo studio e gli serve solo un’occasione.
Ed è grazie al celebre Haydn che ha l’opportunità di recarsi a Vienna, dove si distingue nelle sue esecuzioni presso la nobiltà.
Ma la prolificità creativa rischia un arresto quando, ventottenne, inizia ad avvertire i primi sintomi di quella che non solo è una malattia, ma il dramma di Beethoven: comincia una sordità che entro i suoi quarant’anni diventerà totale.
Ciò lo porta a chiudersi sempre più in una sorta di misantropia che già gli era parzialmente propria: nasconde finché può il suo deficit, conscio dei numerosi nemici che si è conquistato sia per le sue capacità che per il suo non semplice carattere.
La natura diviene per lui rifugio ed eremo, ma non si ferma la sua carriera, anzi: la maggior parte delle sue notissime sinfonie nasce in quegli anni in cui il suo udito svanisce.
Nel frattempo, si inimica coi suoi atteggiamenti arroganti gran parte della famiglia, perde dei lavori ed è sempre più intrattabile: con la morte di un fratello viene dichiarato tutore del nipote, con cui però non sa confrontarsi – non ha la stoffa del padre, per quanto si mormori di una figlia naturale avuta da una delle sue delusioni sentimentali giovanili.
Importante è anche il rapporto con Goethe, che sa più di stima che di pura amicizia, ma si stempera in fretta: Ludwig è sempre più solo.
Mentre la sua gloria come musicista aumenta, la sua capacità di instaurare rapporti duraturi (ardua vita ha il suo segretario privato Schindler!) si fa sempre più esigua e non solo per il suo handicap: tra le incomprensioni col nipote Karl e la difficoltà nel capire (comunicherà con gli amici attraverso fogli di carta), la sue esistenza si trascina insoddisfatta fino a concludersi a causa di una polmonite degenerata.

Muore nel marzo del 1827 a Vienna e il suo funerale è ben più affollato di quanto sia stata la sua esistenza – migliaia di persone dietro la sua bara.
Criticato o adorato per la sue improvvisazioni, considerato un outsider e un uomo a dir poco permaloso, divenne un fenomeno pubblico e non lo voleva.
Apprezzava il potere e la lusinga, ma ogni cosa lo infastidiva, vittima di se stesso e di una sorte davvero crudele.
Scrisse Beethoven che gli era così atroce il perdere il senso per lui più caro, che se non fosse stato per la sua arte – per quel talento di cui era assai consapevole – si sarebbe tolto la vita, probabilmente. Quando l’arte salva.
Viene da riprendere il concetto di volontà di potenza adleriana, in cui l’inferiorità d’organo diviene spinta compensatoria per migliorarsi.
Non che in precedenza Ludwig non nutrisse la sua ben riposta ambizione, ma i suoi più grandi capolavori nascono quando lui è sordo.
Beethoven sapeva – sapeva che la musica è dentro, evidentemente. E’ stupefacente, da pensare. Eppure, la musica gli ha evitato il suicidio, ma non è mai riuscita a dargli la pace – pace che in effetti, se fosse stata in lui, non ci avrebbe fatto conoscere note così intense.
Beethoven è universalmente riconosciuto come un carattere complicatissimo, per usare un eufemismo: accanto al bucolico sentimentalismo che si accende di fronte a un paesaggio, traspare un individuo facilmente irritabile, ipercritico, che giudica con ferocia il genere e la natura umani.
Non fa nulla per rendersi apprezzabile, dal punto di vista della sua personalità: insulta democraticamente, nel senso che non si fa problemi a litigare con gli stessi potenti che gli danno di che vivere (non si sa se per coraggio o presunzione).Ha un lato collerico che non riesce a frenare – è sarcastico più che ironico, egocentrico più che egoista – è come se fosse stato deluso dal mondo, e non si fosse ripreso più. Tutto gli risulta fastidioso, mutevole, inaffidabile.
Nel suo essere sprezzante non considera il dolore altrui e l’altrui punto di vista.
Eppure sa essere appassionato, sensibile, emozionante.
Racchiude nella musica sì la propria essenza, ma anche quella capacità di comunicazione che non ha nella vita di tutti i giorni.
In lui è sempre tempesta e così le sue composizioni stravolgono, i suoi ritratti ci dicono di un uomo non bellissimo, ma in preda a una qualche possessione – è inquietante.

Come se tanta forza non potesse stare in un animo solo, e quindi si contorcesse tutta per uscire.
Le peculiarità di Beethoven erano già presenti prima della malattia – indubbiamente furono però notevolmente esacerbate dalla frustrazione e il dolore per la perdita dell’udito, qualcosa già di per sé orrendo per chiunque, per lui addirittura infernale.
Non ha la giocosità di Mozart o il pallido languore stilistico di tanti contemporanei: lui sua introversione è inguaribile.
La sua esuberanza diviene quasi violenza, la sua rabbia un accorato appello di quiete.
La serenità gli sarà sempre estranea e il suo è uno struggente canto, per poi sfociare in alcune luminose opere, in un Inno alla Gioia che sa di grazia divina.
Magari, ciò che cercava era proprio quella tranquillità dei sensi che, incontrando in alcuni suoi simili, gli faceva nascere una sorta di invidia e senso di privazione.
Immaginate di avere un dono o un talento – chiamatelo come volete.
Lo state perdendo, ancora giovani, in maniera davvero terribile.
Cosa fareste? Beethoven ha reagito: è diventato un genio.
Un genio infelice.

(Pubblicato con l'autorizzazione dell'autrice e di Psicolab.net)

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