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venerdì 8 maggio 2015

La forza di Elsa, di Dacia Maraini

(a cura di Mimma Zuffi)
Elsa Morante
Dacia Maraini














La cosa più straordinaria di Elsa è la sua forza mitopoietica, la sua capacità di trasformare i piccoli borghesi in re e regine: è un mondo di grandezza che parte però dall’umiltà, l’umiltà che diventa regno del paradiso, regno dell’estremo. Da qui l’uso molto esteso di “parole estreme”, quali, ad esempio, orrore, caos, inferno, demonio, paradiso, delirio, magheggi, tortura, spettri, putrefazioni, stupro eterno, eterna sconfitta e così via. E poi moltissimi aggettivi poetici come piccole pozze incantate, narcisi imberbi, latte intossicato, prati sinistri, miraggio segreto, apparizioni numinose, sonni morbosi liquidi.


Si aggiunge l’uso di metafore doppie, triple, incastrate una dentro l’altra, in un sistema retorico che si fonda su una vera “danza delle metafore”, come la piattezza carcerata in cui ballonzolo, per dirne una,  fili scherzanti in un gioco d’acqua, fanciulle spirito con voce rauca.
Inoltre, la presenza di molti ossimori: la morte bellissima, la menade spaurita, una gioiosa sventura, una nebbia sfavillante, la palpitazione carezzevole.
Infine le iperboli come il tripudio del suo pianto, scandaloso farsi uomo, accanto ad un uso esteso di diminuitivi: lettuccio, caffeuccio, manine, piedini, culillo, guanciette, figliette, occhietti.
Ho trovato spesso nei suoi libri una parola, che è un parola-oggetto: lo specchio. In questo sguardo affettuoso, fantastico e colmo di echi gongoriani – non c’è dubbio che Góngora entri in pieno nello stile di Elsa – entrano come elementi disturbatori gli specchi. Già Menzogna e sortilegio, com' è noto, comincia proprio con la protagonista, Elisa, che sola nella casa dove sono morti i genitori, osserva attonita gli specchi che rompono l’oscurità della casa, e hanno un proprio baluginio. Elisa li chiama «intrusori estranei». Nello specchio l’uomo esce dal mito ed entra nella realtà. I soli specchi in cui il protagonista può ritrovare se stesso sono gli occhi della madre. Tutti gli altri specchi sono invece impetuosi, crudeli, e riportano controvoglia la persona che vi si riflette a individuare il fondo di verità che si cela sotto i miti. E lì comincia la rovina.
Si veda a questo proposito una breve nota sugli specchi tratta dall’ultimo romanzo di Elsa Morante, Aracoeli

Allora mi sono guardato negli occhi. Raramente ci si guarda, con
se stessi, negli occhi, e pare che in certi casi questo valga per un
esercizio estremo. Dicono che, immergendosi allo specchio dei
propri occhi – con attenzione cruciale e al tempo stesso con abbandono
– si arrivi a distinguere finalmente in fondo alla pupilla
l’ultimo Altro, anzi l’unico e vero Se stesso, il centro di ogni esistenza
e della nostra, insomma quel punto che avrebbe nome
Dio. Invece, nello stagno acquoso dei miei occhi, io non ho scorto
altro che la piccola ombra diluita (quasi naufraga) di quel solito
niño tardivo che vegeta segregato dentro di me. Sempre il medesimo,
con la sua domanda d’amore ormai scaduta e inservibile,
ma ostinata fino all’indecenza. (Morante 1982, pp. 106-107)


Qui il tema dello specchio è intrecciato con un altro, quello dell’amore non ricambiato. Un altro oggetto-parola e parola-oggetto al medesimo tempo con un significato profondo sono gli occhiali. Si tratta di un altro specchio che cambia il rapporto col mondo, e questo mi ha immediatamente riportato alla mente un bellissimo racconto di Anna Maria Ortese, contenuto nell’opera Il mare non bagna Napoli (Ortese 1953): la protagonista del racconto, Eugenia, vive in un basso napoletano e a causa della sua miopia tutto ciò che la circonda appare bellissimo ai suoi occhi velati. Un giorno le regalano un paio di occhiali. E in quel momento finalmente vede la realtà per quello che è. Si tratta di una metafora straordinaria, e di certo c’è una coincidenza con Elsa Morante. In realtà le coincidenze sono molte, e ci sarebbe da fare uno studio sui rapporti tra Elsa Morante e Anna Maria Ortese, perché hanno anche altre cose in comune, come ad esempio il loro amore per la Spagna, per l’Andalusia. Leggo ancora un brano tratto da Aracoeli

Docile alla sua voce, io li inforcai nuovamente: rimbalzando
fulmineamente, come stregato, nell’incendio bianco dei troppi
bulbi elettrici, fra gli specchi multipli da dove, in un disgustoso
capogiro, schiere di orbite senza carne mi puntavano con i loro
scintillii sinistri. Ma il peggio mi aspettava fuori dalla bottega:
dove la strada affollata, rutilante di neon e di fanali, m’investì
col suo mai veduto spettacolo di orrore. Gli aspetti del mondo
avevano preso, ai miei occhi, una chiarezza e un rilievo inusitati,
che me li accusavano come un’unica violenza proteiforme.
Non m’ero accorto mai, prima, di quanto fossero duri e brutali
i segni sulle facce umane. Le loro pelli sembravano conciate e
ostentavano rughe feroci, simili a sfregi incruditi con la sgorbia
e anneriti con catrami. Fra l’uno e l’altro marciapiede, si succedevano
urgendo in una serie assillante, occhiaie biliose tumefatte,
ghiotte narici enormi, gorge tracotanti a macchie paonazze,
spaventosi occhioni bistrati e bocche tinte a sangue di
macello. (Morante 1982, p. 175)

Questo è molto simile a quel momento di illuminazione, di rivelazione della realtà, un tema che si ripete molto spesso in Elsa. 
Un altro tema importante è quello della maternità. In quasi tutti i libri di Elsa il corpo della madre è generoso, fornito di un latte che nutre, ma è anche, contemporaneamente, il corpo di una bambina vogliosa, di un sesso inquieto, capriccio e desiderio mescolati insieme. Aracoeli, ad esempio, è innamorata del marito, ma ciò non le impedisce di tradirlo, presa da una «bramosia virginale», un altro ossimoro felice. «Il suo corpo molleggia e si snoda quasi disossato – dice lei – partendo sulla scia dell’uomo gatto». Quindi il rapporto con la madre è definitivo, carnale, eterno. Tutta la storia di Aracoeli è basata su questo rapporto di delizia e di tortura, la ricerca di un assoluto inimitabile che porta alla morte e al silenzio. Ma dall’altra parte, come per compensare, appare con prepotenza in Elsa il rapporto col padre: un padre sfuggente, ossessionato dal sesso, come ne L’isola di Arturo, oppure un padre assente e imbalsamato, come in Aracoeli. Questo rapporto si ripete in continuazione.
Un motivo altrettanto importante, che ho già accennato, è l’esotismo. Il romanticismo linguistico di Elsa non poteva non comprendere forme carezzevoli e geniali di nuovo esotismo. Non l’esotismo di Hermann Hesse o di Edward Forster che mitizzavano le religioni orientali. Non l’esotismo di Karen Blixen o di Ernest Hemingway che idealizzavano, rifacendosi a Rousseau, il buon selvaggio africano. Quello di Elsa è una sorta di innamoramento sensuale per la musicalità linguistica, per l’incanto pittorico ed architettonico dell’Andalusia, ma anche per la dolce lingua spagnola, per i canti gitani e le città delle meraviglie, come Siviglia, Cordoba, Granada, Malaga. Un esotismo legato agli anni Trenta? Sarebbe interessante vedere il passaggio da un esotismo orientale, che si riferisce – attraverso la pittura, la musica e la letteratura – al lontano est asiatico, a un esotismo invece proprio della Spagna. Da dove deriva quest’esotismo andaluso che Elsa ha in comune sia con scrittrici a lei coeve – Anna Maria Ortese – sia con scrittori più vicini all’oggi se si pensa a Tabucchi?
Inoltre mi vorrei soffermare sulla voce narrante, importantissima per stabilire il punto di vista del narratore e dei personaggi. Con uno straordinario senso dell’innocenza linguistica, Elsa Morante sceglie sempre una voce narrante infantile: il puer aeternus. A volte ci si chiede perché non riesca a vedere una puer aeterna, cioè una bambina al posto di un bambino. Ma la bambina è già probabilmente nel corpo innocente della madre, questa eterna adolescente il cui amore risorge ogni volta dalle ceneri. Il puer aeternus le consente di raccontare la sorpresa, l’annuncio, la nascita del pensiero, la scoperta della parola in sé. Anche in Aracoeli la voce narrante è la voce di un uomo che disprezza se stesso, ma sotto questa svalutazione di sé appare in continuazione la voce del bambino che è stato e che vorrebbe ritrovare. Si è detto che Aracoeli è stato scritto pensando a Pier Paolo Pasolini, per la presenza di tematiche quali l’omosessualità o il rapporto morboso con la figura materna. Ma anche il rifiuto della realtà: il profondo fastidio per il mondo quale si mostra ai più. Elsa vedeva in Pasolini, come in Manuel – il protagonista di questo libro – una persona che, come faceva lei nella vita, rigetta, allontana e seppellisce la realtà. Elsa odiava quello che chiamiamo il buon senso, il realismo, la quotidianità, trovava molto più incantevole la fantasia, l’immaginazione, il fiabesco, insomma quell’invenzione continua e meravigliosa che attraverso i suoi libri ci incanta tutti.
Penso però che tra Manuel e Pasolini non vi siano comunque tante somiglianze. Manuel è un uomo che si sente brutto, che si reca in un paesino spagnolo sconosciuto, e impossibile da rintracciare persino nella carta geografica, per cercare questa Aracoeli che è stata una madre terribile e sensuale, una madre molto seducente, seduttiva, materna e nello stesso tempo repulsiva, perché lo ha rifiutato. Ci sono dei momenti straordinari, come quello in cui il protagonista, tornando indietro con la memoria, rivede la madre dormire, e nel dormire, a lei che era molto pudica, sfugge un seno dalla camicia da notte. In quel momento Manuel, già adulto, va a suggere al seno della madre creando una scena di grande sensualità, ai limiti dell’incesto. La scena rappresenta anche un esempio dello stravolgimento delle età tanto caro al narrare di Elsa, grazie al quale il bambino porta in sé l’adulto e l’adulto porta in sé il bambino, in uno confondersi continuo in cui l’uomo non riesce mai a distanziarsi dall’infante che è in lui.
È il puer aeternus appunto, un elemento che ritroviamo sempre. A parte L’isola di Arturo, dove il bambino racconta in prima persona, anche in tutti gli altri libri è sempre presente un puer. E viene da chiedersi perché sempre un bambino e non una bambina. Ma in realtà la bambina, come ho detto, è altrove. La bambina è la madre: è Nunziatella, è Ida, una donna innocente, umile e ignorante. Una donna che viene violata, che viene sacrificata e abbandonata, che non è mai del tutto amata. Quello che manca alla bambina-donna è, se vogliamo, la consapevolezza di sé.
In questo Elsa probabilmente riflette un contesto storico: si è detto che lei aveva dei pessimi rapporti con il femminismo. È vero, ma anche Pasolini, ad esempio, non accettava alcuna organizzazione che rivendicasse i diritti degli omosessuali. Ma bisogna capire che allora ancora il femminismo non si era sviluppato in Italia, per cui pronunciarela frase “letteratura femminile” costituiva quasi una offesa: era come parlare di una letteratura minore. È chiaro che Elsa, orgogliosa com’era della sua scrittura e del suo stile, rifiutava quella etichetta. Per lei “letteratura femminile” era sinonimo di letteratura non “alta”. Ricordo benissimo il suo rifiuto orgoglioso di partecipare ai gruppi, anche se altre più avvedute politicamente – come Rossana Rossanda, sua coetanea – sono invece entrate nel mondo del femminismo.
Mi piacerebbe approfondire altri due temi: quello del piacere del dolore, perché è un tema che mi sta a cuore, insieme a quello congiunto della consapevolezza, e quello dei rapporti tra Elsa Morante e la critica. 
Rispetto a quest’ultimo punto vorrei ricordare che quando è morta Elsa – era proprio il giorno della sua morte – è uscito su La Repubblica un articolo di cinque colonne firmato da Alfredo Giuliani, un critico importantissimo allora, che ne fece una stroncatura terribile, chiamando la Morante “maestrina” e tacciando la sua prosa di naturalismo volgare». Scrisse insomma delle cose orribili. Io mi sono sentita offesa per lei. In realtà Giuliani, e tutta la critica dell’avanguardia, hanno espresso sempre un giudizio demolitorio nei suoi riguardi. Perciò non ritengo sia vero il fatto che tra Elsa e la critica ci sia stato un buon rapporto. La critica è stata spesso dura con lei. Sono state le donne che ad un certo punto l’hanno ripresa in mano, e poi è arrivato Cesare Garboli, ma tardi, quando lei aveva già scritto quasi tutti i suoi libri, e inoltre era anche molto amico di Elsa.
Anche con Grazia Deledda come con Anna Maria Ortese, trovo dei punti di contatto con l’opera di Elsa e che per me è una grandissima scrittrice, la critica fu feroce: la considera ancora oggi una piccola scrittrice di provincia, mentre, sempre la stessa critica, inneggia a D’Annunzio, uno scrittore a mio parere inferiore alla Deledda. Solo i sardi forse la studiano ancora, ma la critica mainstream non la tiene in nessuna considerazione, quando invece è uno dei nostri autori classici più importanti.
Aggiungerei che quello che manca alla scrittura delle donne non è né il mercato, perché il mercato fra l’altro è fatto in maggioranza di lettrici, né le case editrici, che appunto, sapendo che c’è un pubblico disponibile, stampano i libri scritti dalle donne. Quello che manca è il prestigio legato al nome di una autrice. Quando sui giornali si fanno le panoramiche sugli scrittori che hanno creato dei modelli per le generazioni future – il modello è sempre legato al prestigio – non si trova mai una donna. Si parte dal presupposto che la scrittura prestigiosa, la scrittura che è modello e che fa canone, sia la scrittura maschile. Tanto per fare dei nomi: siamo abituati a pensare, e anch’io sono cresciuta con questa idea, che il nostro empireo letterario sia costituito, nel Novecento, da alcuni autori che primeggiano, come Calvino, Bassani, Moravia, Pasolini. Non c’è mai, accanto a questi, una figura femminile quando si tratta di stabilire i valori profondi e autorevoli della letteratura.
Accanto a questi rilevanti padri letterari, che sono stati per noi fonte di emozioni e scoperte importanti, dobbiamo aggiungere appunto le madri come Grazia Deledda, Elsa Morante, Anna Maria Ortese, Anna Banti, Lalla Romano, Natalia Ginzburg: posso dire con tranquillità che hanno lo stesso valore letterario. Ma se andate a vedere nelle antologie per le scuole, o negli studi universitari, trovate una sperequazione, una discriminazione ancora fortissima.
Questo lo si vede a occhio nudo.
Per fortuna ci sono anche gli studi delle donne, che continuano a riportare alla luce scrittrici che sarebbero completamente morte alla memoria, come Sibilla Aleramo, come Paola Masino, come Fausta Cialente, Ada Negri, Maria Messina e tante altre tirate fuori dall’oblio grazie al lavoro di critiche, saggiste, storiche. Per questo dovremmo lavorare sulla valorizzazione delle autrici e non concentrarci soltanto sul fatto che vengano o meno pubblicate quando sono in vita.
I premi letterari non significano nulla: Grazia Deledda ha avuto il Premio Nobel nel 1936, ha significato qualcosa? Poco o niente. Il premio spesso volte viene dato proprio per togliersi un senso di colpa. Il vero prestigio sta negli studi universitari, nelle tesi, nelle biografie, nelle antologie per le scuole. Sono questi i luoghi dove si stabiliscono i valori per le prossime generazioni, e vi assicuro che se trovate una donna la trovate soltanto per quella famosa legge del 5% , per la quale se ne entra una ne esce un’altra, lasciando fissa la percentuale.
(trascrizione a cura di Claudia Messina)

Bibliografia
Morante, Elsa (1982) Aracoeli, Torino: Einaudi.
Ortese, Anna Maria (1953) Il mare non bagna Napoli, Torino: Einaudi.

(Pubblicato con l'autorizzazione dell'autore e dell'editore ai quali va il mio particolare ringraziamento)

6 commenti:

  1. Complimenti al direttore di sognaparole. Aver ottenuto un intervento come quello di Dacia Maraini è un grande merito!
    Antonella

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  2. Due grandi della letteratura italiana!! Bello il Libro sulla Morante!Acuto il saggio di Dacia Maraini.
    E un plauso al Direttore di sognaparole: Mimma!
    Maurizio

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  3. Una grande scrittrice che esalta un'altra grande scrittrice, non capita tutti i giorni! Grande Mimma per aver realizzato questo scoop. Juanito

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  4. Elsa, Dacia, Grazia, Sibilla, Fausta, Ada...voci femminili di alta letteratura da studiare e far conoscere ai giovani. Corinna

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  5. Ringrazio tutti per i commenti positivi. Un ringraziamento particolare a Dacia Maraini per aver creduto in noi.
    Mimma

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    1. Sono d'accordo sui commenti positivi, scrittrici che dobbiamo far conoscere. Grazie Mimma.

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