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domenica 22 febbraio 2015

Nĭhĭl


 Di Vincenzo Zaccone





-        Ricordo. Ricordo tutto. Il semaforo divelto, le urla, lo spavento, la pioggia battente, gli occhi di chi era rimasto immobilizzato, l'auto schiantata oltre il marciapiede. I vetri rotti, esplosi, sporchi di sangue, i rivoli di acqua rossa che correvano lungo le pendenze della strada, il pavé della città sporco di quella fatalità.

-        Era ancora vivo l'uomo dell'auto?

-        Questo non lo so. Ero distante, non riuscivo a capirlo.

-        E allora?

-        Allora cosa?

-        Perché ne stiamo parlando?

-        Me lo hai chiesto tu. Pensavo ti interessasse.

-        Mi interessava perché interessa a te. Ma non capisco il perché.

-        Continuavo a guardare attraverso il lunotto distrutto dell'auto, cercavo di indovinare se ci fossero movimenti all'interno. Non riuscivo a capire, per quanto mi sforzassi di farlo, se fosse ancora in vita oppure no. Vedi, non so spiegartelo. Ero così intimamente turbato da quanto avevo visto, così spaventato all'idea che fosse morto. Quasi come se la causa della sua morte fossi io.

-        Ma tu non sai se sia morto. Allora, cosa ti turba ancora?

-        È che l'ho visto, nell'istante dello sbandamento verso il semaforo, mentre cercava d'istinto di mantenere il controllo dell'auto. Mi sembrava un ragazzo giovane. Ho come l'idea, l'immagine in testa dei suoi occhi spaventati, che capiscono quale possa essere la conseguenza di quel breve attimo, intendono che quel terrore è tutto quello che gli resta da vivere. Mi turba l'idea che sia morto in quell'impatto.

-        Quindi è di questo che stiamo parlando, questo ti agita così tanto? Non è  colpa tua: lo scooter è scivolato, nell'attraversare l'incrocio, e lui ha sbandato cercando di non andargli addosso.

-        Ma se lo scooter non fosse scivolato, lui sarebbe ancora vivo.

-        Non sappiamo se è morto. Lo hai detto tu, hai detto solo di non aver notato nessun movimento, ma ciò non dice nulla di certo. In realtà non puoi cercare di capire da quello che sai se è vivo o morto, dovresti solo affermare che non lo sai. Ma ti ostini a focalizzarti sulla morte di quell'uomo, come se fosse reale. Perché hai bisogno di sentirti in colpa per la sua morte?

-        Perché mi spaventa l'idea che sia andata così e mi dispiace!

-        Tu sei morto! Questo non ti dispiace? Mi vuoi fare credere che qui si stia parlando di lui? Qualcosa ancora ti agita e ti aggrappi a quella scena, non la molli e parli di lui nelle modalità in cui vorresti parlare di te. Della tua fine. Sei dispiaciuto perché lui è morto in maniera così accidentale? Continui a parlare di lui, ma se non riesci a liberarti da quella scena non è per via del senso di colpa. Quello è qualcosa che ha a che fare con le costruzioni mentali di quando si è in vita. Ma qui, adesso, non lo sei. Non lo sei più. Quindi deve essere altro. Ha a che fare con te.

-        Hai ragione. Forse è altro. È rabbia! Quella di essermi visto, accidentalmente, finito, sconfitto, lungo quella strada. Sconfitto dalla sorte, dalla casualità di cose non necessarie, che sono andate così ma potevano andare benissimo in un altro modo. Di notte. In maniera così assurda, surreale. In maniera così anonima.

-        Non ti è mai importato della condivisione delle cose. Mi vuoi far credere che sia successo in luogo della fine?

-        Beh, ma sono morto così banalmente! La morte è banalità: è una soluzione di continuità, solo un'interruzione del proprio volere, solo una non-cosa, è tutto ciò che non ha a che fare con l'essere. Ma è ridicolo che da un momento all'altro sia successo tutto questo, che sia successo di morire, quando poteva essere un incidente meno grave. Poteva essere ancora vita.

-        Non è questo che ti sconvolge. Adesso che hai smesso di vivere non puoi continuare a vagolare nel mondo dell'idee, per costruirti una realtà più accessibile; quelle idee che hanno a che fare con ciò che fosse giusto o meglio accadesse. Tutto ciò ha a che fare con l'esistenza, con il suo senso. Passato. Non con quello che le dai tu adesso. Un senso a posteriori lo si può trovare alle cose che accadono in vita, ma non alla vita stessa. E il senso delle cose può essere solo colto a posteriori, non stabilito, costruito forzatamente; altrimenti manca di compiutezza e ha valore solo di copertura illusoria, di conforto a tempo indeterminato. Ma, ancora, questo ha a che fare con l'esistenza e tu non esisti più. Forse la tua rabbia, quindi, ha a che fare con la mancanza, con la privazione, che è la non-vita.

-        Non saprei. Forse sì. Credo sia un'assenza, una frustrazione: quella di non aver mai scritto il mio libro. Continuavo a pensarci, continuavo a credere che potesse e dovesse essere un riscatto. Andavo avanti a lambirlo con la mente, con la voluttà, ma non mi ci sono mai avvicinato. Forse perché avevo paura che la vita potesse conoscere quel riscatto, forse perché non sono mai stato pronto ad affrontare una realtà in cui vivere la vita e il senso di compiutezza della stessa fossero coesistenti. Non sono mai stato pronto a essere felice, perché la felicità non è uno stato ontologico dell'essere, ma uno stato emotivo acquisito, appreso, spesso solo indotto e mimato. E io non avevo conoscenza di quella parte di mondo, attraversarlo non avrebbe fatto parte di me. Ho sempre abitato in paesaggi aridi e muti e non avrei saputo quale altro Me fosse possibile in una dimensione diversa.

-        Nessun altro. Perché non puoi essere altro da te. Quindi avresti continuato a essere infelice, o frustrato o insoddisfatto, anche se avessi scritto il tuo libro. Anche se avesse avuto successo.

-        Vedi? A maggior ragione, allora: tutto questo non ha senso! Non ha senso la vita di per sé, il modo in cui accade, la casualità con cui finisce. Che avessi o meno scritto il mio libro, comunque non sarebbe cambiata la percezione di me. Ma quindi perché adesso sentirmi arrabbiato?

-        Perché ti dovrebbe importare, anche questo? Se lo avessi scritto, in ogni caso, fosse di successo e di soddisfazione, fosse di fiasco totale, comunque adesso la cosa non ti riguarderebbe. E allo stesso modo, ora che comunque non lo hai scritto, in che misura la cosa ti tocca? Ora che manca il presupposto della soddisfazione e della frustrazione, cioè tu stesso?

-        Ma tu sei troppo razionale. È che non avevo previsto che le cose potessero andare così, avevo immaginato altro davanti a me, nella mia tensione verso il futuro non era contemplato questo strappo nella fitta trama che le possibilità intessevano nella mia mente. Sono sempre stato logorato dalla ricerca spasmodica di cosa fosse meglio per me, cercare di indagare me stesso e quello che mi veniva offerto per sfruttare al meglio le mie possibilità e quelle oggettive intorno a me. E... beh, non avevo messo in conto che l'accidentalità delle cose avesse un potere più alto del valore della vita. Intendo dire che non è giusto che vada a finire così, mi fa rabbia che gli sforzi, le attese, il desiderio, i tentativi, vengano falciati tutti insieme da una sorte così insensata.

-        Tu hai sempre saputo che la vita non ha senso, non ce l'ha in sé, non le viene tolto dal tipo di morte. Nessuna utilità ha la vostra vita se non in relazione al tempo e alla possibilità di viverla perseguendo qualcosa che le dia compiutezza, in quello stesso istante in cui quel qualcosa può accadere. Voi continuate a cercare quel senso, a regalarvene uno, ma è solo un modo per intrattenervi, per ingannare il tempo.

-        Ma almeno avessi saputo che sarei morto, avrei vissuto in maniera diversa, più intensa forse.

-        Credi? Se avessi avuto in precedenza un senso di soddisfazione, avresti continuato a vivere secondo ciò che più ti dava sollievo. Se non lo avessi trovato in precedenza, al massimo avresti riempito il resto dei tuoi giorni di cose che non avrebbero, in definitiva, riscattato quegli ultimi giorni. C'è una fatalità che presiede alla vostra vita, per cui le cose accadono e basta. Tutta la giustizia, la finalità, il concetto di buono e di sbagliato, non esistono che dentro di voi. L'universo funziona secondo princìpi diversi, che sono quelli del caos e dell'aumento di entropia. Non c'è continuità né contiguità tra quello che siete e il vostro mondo, lo capisci?
La vostra mente percepisce la realtà secondo meccanismi che non la   riguardano.

-        Non capisco. Sento che qualcosa manca, è mancato, e adesso non riesco a distaccarmi da quella vita perché le cose non sono andate come avrei voluto. E non riesco a togliermi di dosso questa percezione di inadempimento. Tu ne fai una questione pragmatica di prendere coscienza di quanto non conti ciò che si vuole fare, ma solo ciò che è possibile fare, così da rendere la vita più godibile. Ma mi pare comunque che tutto ciò non abbia a che fare con la vita, perché manca il sogno, il desiderio, in definitiva la forza trainante. Quella per cui si continua a lottare ogni giorno contro la disperazione e il vuoto di una vita casuale.

-        Quello che sto cercando di farti capire è che siete fatti della materia di cui è costituita la tragedia, quella discrepanza tra ciò che è e ciò che potrebbe essere. Qualunque cosa facciate o non facciate ha senso solo nella prospettiva pratica di una concatenazione di eventi che, nella migliore delle ipotesi, alla fine avrà reso il viaggio più sopportabile. Ma che non serve a nessuno, se non a voi stessi, per nascondervi che qualsiasi cosa sia o non sia, alla fine il senso che voi ci mettete in quello che fate, non esiste al di fuori di voi e non esiste, a maggior ragione, come postumo della vostra esistenza. Il senso delle cose e, in definitiva, della vita, non è una categoria dell'universo della quale si può partecipare o meno, ma è qualcosa che ha a che fare con il vostro modo di accogliere ciò che vi accade. E anche questo, come tutto il resto, è qualcosa che vi può appartenere oppure no.

-        Ma ognuno di noi ha una sua dignità, in quanto individuo unico. E per questo motivo, spetta a ognuno di noi seguire la strada delle proprie passioni, delle proprie attitudini, per dare un senso a noi stessi e al nostro passaggio in quell'eternità che prescinde da ogni singolo, che è la Vita.

-        Mi parli di senso rispetto agli altri, rispetto a quello a cui hai contribuito in vita? Vuoi dirmi che quello che hai fatto non è servito solo a te stesso?

-        No! Perché, nell'ipotesi del mio libro, mentre ero in vita, se avessi comunque scritto qualcosa di espressivo e significativo e utile a ogni altra persona che avrebbe potuto leggerlo, la cosa avrebbe avuto senso di per sé. Anche se io adesso sono morto e non coesisto con quello che ho lasciato di me.

-        Dici davvero? Hai perseguito i tuoi sogni a prescindere dalla soddisfazione che avrebbero potuto darti in vita? Se avessi lasciato un libro eventualmente utile a qualcuno, adesso saresti meno arrabbiato perché in un attimo ti sei schiantato contro un marciapiede?

-        Sì, questo credo.

-        Tu non appartieni più a quel mondo, non puoi sapere cosa accadrà ora che non ne fai più parte. Che tu abbia fatto qualcosa di produttivo o no, la cosa poteva avere solo un senso immediato per te, nel momento della tua vita, ma non può in alcun modo averlo adesso che non ne partecipi, né può averlo per gli altri. Per quest'ultimi può avere una fruibilità pratica o emotiva, ma quella condivisione non darebbe un senso né alle loro vita né alla tua adesso.

-        Ma allora che cos'è? Cos'è quello per cui mi sono preoccupato e dibattuto per tutta la vita? Cosa, questi rabbia e incupimento che ora mi trattengono ancora in quella dimensione? Parli di tragicità insita nel modo in cui si è, ma io non capisco, ci preoccupiamo solo di dare un fine a noi stessi e non vivere “a caso”.

-        Questo credete, ma in realtà quel senso di cui vi convincete e vi compiacete vi serve solo a strappare la vita alla sua natura di noia, di ripetizione, di succedersi di faccende casuali. Il frutto di ciò che vivete è immanente, concreto, connesso strettamente all'attimo in cui accade, e un momento dopo, non ne resta traccia: di esso, di voi, del suo significato presso di voi. Vi può modificare sentitamente, intrattenere, compiacere, deludere, ma poi passa e avete bisogno di altro e altro ancora, in una concatenazione infinita che si può interrompere in qualsiasi momento senza addurvi danno. Al massimo qualche vantaggio, a volte. Qualsiasi cosa sia successa o ti sia mancata in vita, adesso non importa più: che tu sia stato soddisfatto o frustrato, quel sentore avrebbe potuto aiutarti o renderti la vita impossibile. Ma adesso non conterebbe nulla, in ogni caso. La verità è che siete divinità corrotte, voi stessi delle accidentalità della natura, che è il Tutto, che non vi perdona la mortalità di esservi calati nello spazio e nel tempo. Partecipate del divino, senza rendervene conto, e la parte che da voi trascende, pur intrisa del mondo del corpo, vi porta a progettare, programmare, dimenticando che tutto è in balìa del caso. Non di voi stessi. Avete una natura duale: quella mentale che partecipa del divino e quella fisica che lo àncora alla finitezza e al caos del mondo. La prima può farvi trascendere dalle leggi di questo mondo e farvi pensare che qualcosa di più grande presieda quella concatenazione di scene, di quello spettacolo di maschere che è la vita. Ma perché voi in realtà conoscete una realtà più grande: è quella di Dio, che è costituito dall'umanità tutta, in quanto tale, in quanto concetto, e si inscrive nell'eternità da cui dipartono le energie che hanno reso l'Universo reale e possibile. Quell'eternità che racchiude le vite limitate che ragionano in termini d'inizio e di fine, una linearità direzionata da cui vi allontanate quando la mente riesce a dimenticarsi del corpo e viaggia sulle altre frequenze dell' essere. La malattia e la penuria sono il richiamo del corpo, dello stato finito delle cose che appartengono al tangibile, ciò che il corpo è e rappresenta, nell'insieme di sensazioni fisiche ed emotive di cui si fa sigillo.

-        Ma tu chi sei?

-        Sono tutto ciò che non sei diventato. Unendoti a me ti riunisci a quel tutto che è Nulla, perché ancora privo di determinazioni. Sono quel non-essere in vita in cui Tutto si risolve e continua ad esistere in eterno: tutto quel che siete stati e che sarete, ciò che vale perché ci siete tutti, ma che da voi prescinde. Sono la sola cosa che non smetterà mai di essere: quell'energia che non si crea e che non si distrugge, ma che si trasforma all'interno di quel cerchio chiuso, che diventa finito in relazione al tempo, ma che al suo di fuori di esso esiste e basta. Il divino. Di cui fate parte e che avete proiettato al di fuori di voi per riuscire a concepirlo.

3 commenti:

  1. i tuoi pezzi sono sempre intriganti!
    Adolfo

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  2. Che gran bel termine hai usato per i miei pezzi! Ti ringrazio molto

    Vincenzo

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  3. Che gran bel termine hai usato per i miei pezzi! Ti ringrazio molto

    Vincenzo

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