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mercoledì 26 novembre 2014

Oggi parliamo di ...BRUNO BOZZETTO

di Boris Bertolini


Dicevano gli antichi Romani che “Nomen Omen” (“Il nome è un presagio”) e mai come in questo caso tale locuzione si attaglia al personaggio di cui oggi, in occasione di questo nostro primo appuntamento, andremo a descrivere la prolifica nonché ricca di soddisfazioni attività creativa: Bruno Bozzetto, padre nobile dell’animazione italiana del secondo dopoguerra.


Nato a Milano nel 1938, frequenta il Liceo “C. Beccaria” ed è già sui banchi di scuola che inizia a manifestare la propria vena creativa: coinvolge, infatti, alcuni compagni di classe nella realizzazione dei suoi primi lavori cinematografici, cortometraggi a passo ridotto; tuttavia, la scarsa collaborazione di quelli, spesso restii ad assecondarlo, lo convince presto a cambiare genere d’attori, finendo con il “disegnarseli lui stesso”, al fine di averli sempre disponibili (1).

Socio del Cine Club Milano, in questa veste compie i suoi primi tentativi creativi, alternando cinema d’animazione (da ricordare il suo primissimo lavoro, del 1953, un Donald Duck disegnato su un semplicissimo quaderno a quadretti e quindi ripreso con una cinepresa 8mm) e cinema dal vero.
Immagine tratta da “Tapum! La storia delle Armi”
Ha solo vent’anni quando presenta al Festival di Cannes il cortometraggio “Tapum! La storia delle armi”.
Questa sua opera prima ottiene immediatamente consensi di critica, (un corrispondente giungerà a dire “Bozzetto meglio di Sophia”), consensi che da Cannes si diffondono anche nel nostro Paese, facendolo diventare immediatamente famoso.
Di questo suo primo lavoro di un certo rilievo, va segnalato il fatto che vi appare già quella disincantata ironia tipicamente bozzettiana che troveremo in buona sostanza lungo tutta la sua carriera.
Conviene anche, a questo punto, fare già una considerazione sulla visione che Bozzetto ha del mondo: sebbene molti critici abbiano colto in “Tapum! La storia delle armi”, come in quasi tutta la sua restante produzione, una certa vena pessimistica, in realtà, stando a quanto dice lo stesso Bozzetto, non c’è assolutamente pessimismo nelle sue opere; egli semplicemente si limita a mostrare le cose come stanno, “… la vita è così. La pianta nasce e muore, l’animale deve mangiare ed ammazza l’altro. Tutto questo fa parte della vita. Forse quello che alla gente non piace e che gli dà fastidio del mio modo di fare è che io metta l'uomo su un piano che non fa comodo, cioè non piace che io veda l'uomo come un imbecille qualsiasi. Anzi […] dirò di più io penso che l'uomo sia il cancro della terra. Se io mi allontano e vedo la terra scopro a un certo punto che c'è un organismo piccolo, piccolissimo che all'inizio non c'era o che era infinitesimale che incomincia a raddoppiare, poi non raddoppia ma in maniera esponenziale diventa milioni poi miliardi lentamente inizia a divorare la terra, la sta inquinando la sta sporcando, la sta disboscando; cosa è questo se non il cancro se lo vediamo da lontano. Quindi la morte dell'uomo come la morte delle cose fanno parte del ciclo naturale delle cose.” (2).
Tornando a “Tapum! La storia delle armi”, la sua trama, in sé e per sé, è di una semplicità assoluta: narra la storia dell’umanità, sin dall’età della pietra, inquadrandola come un incessante susseguirsi di scontri, guerre, violenze, fino alla distruzione, dalla quale si riparte ricominciando nuovamente tutto il medesimo ciclo.
Questo cortometraggio, girato da Bozzetto in 16mm ed avvalendosi dell’asse da stiro della madre quale “verticale”, nonché di una quantità industriale di carta gommata per sorreggere la cinepresa, mette in luce anche l’altra grande peculiarità di questo autore: il suo stile grafico personale, asciutto ma non arido, grazie al quale i suoi disegni, stilizzati con grande maestria, risultano essere dotati di una innegabile freschezza e leggerezza, che aiuta lo spettatore a non sentirsi “soffocato” dalle immagini.


In occasione di quel Festival, poi, Bozzetto entra in contatto con il disegnatore canadese Norman McLaren, che ne coglie immediatamente le capacità e qualità artistiche, e con il produttore inglese John Halas.


Un giovanissimo Bruno Bozzetto in compagnia di Norman McLaren, (Cannes – 1958)

Nel 1959, Bozzetto si trasferisce Oltremanica per studiare animazione proprio presso quello stesso John Halas che aveva conosciuto a Cannes giusto un anno prima e che, riconoscendone il valore, gli produce “La storia delle invenzioni” (1).
Anche in questa produzione ritroviamo quella stessa ironia già espressa in “Tapum! La storia delle armi”: qui essa è indirizzata verso il progresso scientifico/tecnologico dell’umanità, che viene interpretato, secondo il pensiero bozzettiano, per lo più come figlio di circostanze fortuite.
Dal punto di vista stilistico, non vi è dubbio che questo cortometraggio sia una vera e propria evoluzione di “Tapum! La storia delle armi”: la sua cifra grafica appare essere più matura, più “consapevole”.
Degno di nota il finale, in cui, circondato dal caos cittadino ma irrimediabilmente solo, l’uomo sogna un luogo isolato in cui trasferirsi, per fuggire dalle sue stesse invenzioni. Questo svela un’altra caratteristica di Bozzetto, la sua capacità di portare allo scoperto le contraddizioni dell’uomo moderno e della società che si è costruito ed in cui vive.
Il rapporto con il produttore inglese s’interrompe dopo pochissimo tempo, a causa di divergenti modi di intendere l’animazione, che non riguardano tanto questioni squisitamente tecniche, bensì quale dev’essere il fine ultimo del fare animazione e come raggiungerlo (2).
Si giunge così al 1960, anno di fondazione della “Bozzetto Film”; questa casa di produzione, che non disdegna di occuparsi anche di pubblicità, si trasforma immediatamente in una fucina di talenti portando alla ribalta giovani disegnatori, animatori e sceneggiatori: Guido Manuli, Giuseppe Laganà, Giovanni Mulazzani e Maurizio Nichetti, solo per fare qualche nome.
E’ in quest’ambiente che vede la luce, negli anni Sessanta, il Signor Rossi; questo personaggio nacque per caso, stando allo stesso Bozzetto, quale “Caricatura di un signore che era allora il direttore del Festival del Film Artistico di Bergamo, Egli rifiutò al Festival un mio film mentre in Selezione avevo visto dei film ben peggiori del mio. E’ così che nacque «Un Oscar per il signor Rossi», che è la storia di un uomo che, dopo aver visto il suo film rifiutato ad un festival, taglia, graffia, scarabocchia la pellicola e il film così ridotto vince l’Oscar” (1).

Il personaggio del Signor Rossi, in questo film d’esordio, appare ancora in uno stadio rudimentale, ben lungi dall’essere quel “Divo” del Cinema d’animazione che sarà poi negli anni a venire. D’altro canto egli già contiene “in nuce” tutte quelle caratteristiche, (basti un esempio: il suo essere “l’Italiano comune” per eccellenza, a cominciare dal cognome) che lo faranno diventare l’indiscusso “Personaggio Numero Uno” della galleria bozzettiana.                                                       

Alcune tipiche espressioni del "Signor Rossi"
Anche il tratto grafico che lo raffigura, di profilo, con gli occhi in prospetto, si rivela essere una scelta vincente; a questo proposito, bisogna ricordare che il “Signor Rossi” è il primo personaggio, in Italia, ad essere disegnato in tale modo.
Egli poi assomma tutti i vizi, le virtù dell’italiano medio, senza scadere né nel qualunquismo, né nel macchiettistico, né nell’autocompiacimento; condivide, con l’italiano in carne ed ossa le aspirazioni, le frustrazioni, anche le subalternità.
Ad ogni modo, al di là del caso specifico, come nasce, in generale, un personaggio bozzettiano? Lasciamo parlare direttamente l’autore: “Devo vedere innanzi tutto in che contesto lo metto. Il personaggio non è mai staccato da nulla cioè io devo pensare che storia devo raccontare, a chi mi rivolgo e cosa voglio dimostrare. […] Poi devo incominciare a pensare che tipo di storia, è umoristica, è drammatica, è di commedia, è una cosa corta, è una cosa lunga. […] io per esempio parto sempre dal naso, e quindi devo vedere se il naso lo faccio rotondo alla Signor Rossi, o se lo faccio realistico, o se lo faccio all'insù, insomma ci sono tanti modi. Poi da lì si parte col resto, ma tutto questo è condizionato da tutto quello che ho seminato prima.
Poi, se voglio far ridere il personaggio deve essere buffo, gobbo, particolare, se mi rivolgo ai bambini il personaggio sarà facilmente un animale. Se è un film di serie deve essere un personaggio facile da essere ripetuto con dei cliché. […] Ma il personaggio più bello in assoluto è quello che uno fa per un cortometraggio dove è libero, lavora solo con sé stesso, ma anche qui c'è il contesto nel quale deve essere inserito che conta moltissimo. Però devo dire che in questo caso con il personaggio posso lasciarmi andare. In generale se ne disegnano cinquanta e se ne buttano via quarantanove, uno un po' più bello lo si tiene e lo si modifica. Diciamo che quando uno fa un personaggio libero è un po' come quando si fanno degli schiribizzi e a un certo punto ci si accorge di avere creato qualcosa e poi da quel qualcosa si tira fuori il personaggio.” (2)
Nel 1961 Bozzetto produce “Alpha Omega”, il cui protagonista, Alfa appunto, è un omino dal corpo squadrato e dalla testa connotata da tratti estremamente stilizzati. Alcuni critici vedono in questo modo di rappresentarlo un omaggio al disegnatore giapponese Yoji Kuri.
Alpha raffigura l’Uomo in quanto tale, che consuma la propria esistenza (la rappresentazione della vita dall’inizio alla fine è il soggetto del film) in modo tanto superficiale e frenetico quanto statico, cioè, alla fine, improduttivo.
Degna di nota, in questo come in molti altri lavori, la scelta di utilizzare cartelli multilingue per illustrare le varie sezioni in cui esso si divide, nel tentativo di rendere universalmente comprensibile il proprio messaggio. (1)
Due anni dopo è la volta de “I due castelli”; così come in “Alpha Omega” il protagonista è raffigurato in un’unica inquadratura, anche qui i due castelli del titolo, e le montagne su cui sorgono, sono racchiusi in un’unica inquadratura. In questo corto molto significativo, troviamo un altro stilema tanto caro a Bozzetto: i personaggi sono disegnati piccolissimi, e chi guarda  ha la netta sensazione d’essere come uno scienziato che osserva al microscopio il verificarsi di un fenomeno biologico, in tempo reale; ciò crea senza dubbio un’alchimia in grado di tenere lo spettatore inchiodato alla poltrona (1). Inoltre, il senso di questo cortometraggio, racchiuso tutto nello spiazzante finale, è quello che prima di agire avventatamente bisognerebbe sempre chiedersi cosa realmente ci circonda …
I Due Castelli (Finale)


Dopo due nuovi cortometraggi dedicati al Signor Rossi (“Il signor Rossi va a sciare” e “Il signor Rossi al mare”, rispettivamente del 1963 e del 1964), nei quali il nostro protagonista appare certamente meno inibito rispetto all’esordio, ma ancora in qualche misura un poco “rigido”, nel 1965 vede la luce “West and Soda”.
Questo è il primo lungometraggio di animazione che si riesca a produrre nel nostro paese dai tempi de “La Rosa di Baghdad” e “I Fratelli Dinamite”, vale a dire dopo qualcosa come più di quindici anni di silenzio.
Questo film è considerato a ragion veduta come “il primo classico dell’età moderna” nel suo genere e può essere inserito, senza esagerare, nel gruppo dei migliori “spaghetti-western”, assieme alla trilogia di Sergio Leone, sua coeva peraltro, tanto per fare giusto un nome.
Da qualunque punto di vista si analizzi quest’opera, la sua qualità è elevata, ad iniziare dalla sceneggiatura, redatta da A. Giovannini, noto teorico nonché sceneggiatore de “I Fratelli Dinamite”.
Siamo indubbiamente di fronte ad un capolavoro, che unisce nelle giuste proporzioni ironia, suspense, approfondita descrizione psicologica dei personaggi, tecnica d’animazione, trovate al limite del non-sense.
Ermanno Comuzio, ne parlò come de “la disintossicazione dei luoghi comuni” uno “schema obbligato, quindi, che Bozzetto non si limita a prendere per il bavero nei suoi aspetti più scoperti, come succede nelle tante parodie con attori in carne e ossa, ma che rovescia completamente nella beffa feroce e nel ricorso all’assurdo: più che ai western da ridere, interpretati da attori comici, “West and Soda” fa pensare a quelli del cinema comico americano del periodo muto, che si reggevano com’è noto non tanto sugli attori quanto sulle situazioni” (1).

Clementina, eroina di “West and Soda”
Effettivamente, non vi è nessuna differenza, nel dipanarsi della storia come nell’evoluzione “emotiva” dei personaggi, tra questo lungometraggio ed i migliori western interpretati dai maggiori divi di Hollywood; anche i tratti grafici che caratterizzano ciascun personaggio, che siano i buoni come Johnny o Clementina o i cattivi come Cattivissimo o Esmeralda, vanno ben oltre lo stereotipo, ma servono invece a mettere in luce la forza o le debolezze dei personaggi stessi.
Ognuno di essi, ancora una volta, serve poi a Bozzetto quale “pretesto” per parlare della vita reale, sia essa immersa nell’attualità, oppure sia stata parte di un non lontano nostro passato: il discorso con cui Cattivissimo, dall’alto dello sperone di roccia, si rivolge ai suoi sgherri, Ursus e Smilzo, richiama inevitabilmente alla memoria altri, ben più tragici discorsi, pronunciati affacciandosi da un balcone romano …
A loro volta, le trovate ironiche, sapientemente instillate lungo tutto il film, che siano nelle immagini della sigla di apertura, o nelle battute dei personaggi, non sono delle semplici o banali gag umoristiche fini a sé stesse, ma servono a “sincopare” il ritmo del racconto spostandone l’accento quel tanto che basta a spiazzare lo spettatore e ad assicurarsi che questi resti inchiodato alla poltrona: in altre parole, sono un’assicurazione contro la noia e la prevedibilità che in questo genere sono sempre dietro l’angolo.
Sulla stessa lunghezza d’onda viaggiano anche alcuni particolari più tipicamente stranianti: il latte già imbottigliato e custodito, come in frigorifero, nel fianco della mucca alla fattoria di Clementina; il cavallo di Johnny dotato di contachilometri; il maniscalco che si prende cura del cavallo con la stessa gestualità utilizzata da un meccanico alle prese con un’automobile; lo stormo d’avvoltoi che transita in formazione, stile “frecce tricolori”, alle spalle di Cattivissimo (con tanto di rumore di motori a reazione) per finire con la carrozza di quest’ultimo, munita di un clacson a fuoriserie americana.
Allo stesso modo, un ruolo da assoluti protagonisti è assegnato agli animali presenti nel lungometraggio, siano essi parlanti oppure no: dalle mucche (Dolly in primis) della fattoria di Clementina, che ricoprono un ruolo dal sapore di “coro greco”, al cane Socrate, perennemente attaccato alla bottiglia ma non per questo privo di sensibilità ed umanità, che trasmette attraverso la mimica corporea e facciale, degna del miglior B. Keaton, per finire ai cavalli, dispensatori di inconfutabili perle di saggezza.
Inutile ripetere che anche in questo lavoro Bozzetto, pur adattandosi alle convenzioni del genere western, non rinuncia nel modo più assoluto alla propria cifra stilistica, a cominciare dalla sua passione, già ricordata, per il raffigurare i personaggi in modo microscopico, inserendoli per di più in un panorama che si estende a perdita d’occhio. Altri suoi marchi di fabbrica sono la parodia dell’inseguimento, “momento” cinematografico che Bozzetto confesserà di non amare (2), e, nel duello finale, il parallelo tra le dita di Smilzo e quelle di Johnny che si avvicinano al calcio della Colt.
E’ ovvio che tutto ciò è stato possibile non solo grazie alla maestria di Bozzetto, ma anche al fatto che egli si è potuto avvalere della collaborazione di un gruppo di veri fuoriclasse: detto di Giovannini, bisogna assolutamente ricordarsi di G. Mulazzani, alla Direzione artistica ed alle scenografie, assieme a G. Cereda e L. Gozzini; di G. Manuli, Direttore delle animazioni e dei Lay-out, in questo coadiuvato da un esordiente G. Laganà; di F. Martelli e L. Marzetti alle riprese.
Dopo “West and Soda” Bozzetto realizza un nuovo cortometraggio dedicato al Sig. Rossi (“Il sig. Rossi si compra l’automobile”) in cui questo personaggio assume definitivamente la caratura di vero protagonista. Come negli altri due precedenti, anche qui Bozzetto mette impietosamente e lucidamente a nudo i limiti ed i difetti della moderna società dei consumi, con i suoi comportamenti massificati e nevrotici.
Sulla stessa lunghezza d’onda si situa il corto successivo, “Una vita in scatola”, che illustra, dalla nascita alla morte il conflitto fra il desiderio di vivere nel pieno della natura incontaminata e la realtà di consumare il proprio tempo in maniera ripetitiva all’interno, appunto, di una scatola (casa, scuola, automobile, ufficio, ecc.).
A tre anni di distanza da “West and Soda” esce il secondo lungometraggio di Bozzetto: “Vip - Mio fratello superuomo”. Qui si narrano le vicende degli ultimi due epigoni della stirpe dei Vip, super eroi che, sin dalla preistoria, si sono sempre battuti affinché il bene (o presunto tale …) trionfasse sul male. Però, se uno dei due fratelli, Super Vip, incarna alla perfezione la tradizione di famiglia, l’altro, Mini Vip, è invece una specie di “pecora nera”. Non è praticamente dotato di super poteri ed inoltre soffre di un marcato senso d’inferiorità verso il fratello Super Vip; ciononostante sarà proprio lui, Mini Vip, il protagonista assoluto della vicenda.
MiniVip – Eroe … suo malgrado?

Anche in “Vip - Mio fratello superuomo”, il tratto grafico, sebbene profondamente diverso rispetto a quello usato in “West and Soda”, assolve il ruolo fondamentale di definizione delle caratteristiche psicologiche, ancor prima che fisiche, dei personaggi: le stesse linee rotonde ed aggraziate che caratterizzano Super Vip, e che servono a sottolinearne la perfezione ed anche la facilità con cui risolve le situazioni, in un personaggio come Happy Betty, l’antagonista, funzionano da moltiplicatore della sua perfidia e malvagità.
Lo stesso uso del colore, più acceso ed in alcuni tratti anche più aggressivo in “Vip - Mio fratello superuomo” rispetto a “West and Soda” non è senza ragione, essendo funzionale al ritmo più da “thriller” di questo secondo lungometraggio.
Vi sono peraltro notevoli punti di contatto tra le due produzioni: Cattivissimo era dotato di una carrozza dal clacson “fuoriserie”? Ebbene, Happy Betty si muove per mezzo di un trono cingolato, che è davvero un tutt’uno con lei. In “West and Soda” comparivano due sgherri a fianco dell’antagonista? Anche qui il malvagio di turno è assecondato da due aiutanti (Colonnello e Schultz).
Anche in questa realizzazione, che vuole essere una parodia non solo del genere fumettistico dei “Super Eroi” ma anche di quello dei film d’azione alla “Agente 007”, Bozzetto non si tira indietro dal segnalare il vero nodo della società contemporanea: la trasformazione di ogni individuo in un puro e semplice “consumatore” acritico, comandato a distanza, ed il cui unico scopo nella vita è comprare per consumare e consumare per comprare, in un eterno ciclo senza fine; oltre a ciò, di “Vip - Mio fratello superuomo” andrebbe sottolineata, al di là di quelle che erano le intenzioni dell’autore, anche la lungimiranza nel prevedere alcune situazioni che ora, a più di 40 anni dalla sua realizzazione, sono assolutamente attuali (a cominciare, ad esempio, dalle condizioni di lavoro nella fabbrica di Happy Betty).
Fra i vari cortometraggi realizzati successivamente a “Vip - Mio fratello superuomo”, vorrei richiamare l’attenzione su due di loro in particolare.
Il primo è “Ego” del 1969, in cui il nucleo centrale del racconto, inserito tra due parti più tipicamente bozzettiane, è sorprendente nel suo dirompente espressionismo, reso efficacemente dal tratto grafico e dall’uso magistrale dei colori, ed in cui non manca la commistione fra animazione disegnata ed immagini dal vero, che in questo corto sono sovrapposte le une alle altre come in un collage. Tutto ciò non fa che esasperare la sensazione di essere di fronte ad una patologia del subconscio, alla quale non è forse estraneo un certo modo di vivere, fatto di gesti e comportamenti ripetitivi ed alienanti.
Il secondo è “Sottaceti”, composto di una rapida successione di brevissimi episodi, alcuni disegnati, altri “dal vero”, altri ancora, a loro volta, contemporaneamente sia disegnati sa dal vero (vedasi gli sketches “La pubblicità” o “Conclusioni”).
Anche questo corto tiene fede alla filosofia di fondo di Bozzetto, presentando una sequenza di situazioni tipiche della società moderna, di cui mette impietosamente a nudo le contraddizioni e le nevrosi.
Dopo altri cortometraggi, in alcuni dei quali protagonista è nuovamente il Sig. Rossi, è quindi la volta del “lungo” più rinomato di Bozzetto, quello che più si è legato nell’immaginario collettivo alla sua persona: “Allegro non troppo”. Quest’opera gli è valsa anche la nomina ad “Anti-Disney”, benché egli abbia sempre rifiutato tale etichetta, arrivando a definirsi come “un misto di Disney e McLaren, e questi sono due personaggi assolutamente antitetici”. (1).

Allegro non troppo (J. Sibelius - Valse Triste)
Vale la pena soffermarsi ad analizzare questo lungometraggio, che di sicuro tra i tre fin qui descritti, è il più originale, sotto molti punti di vista: è fuor di dubbio che esso tragga una qualche ispirazione dal Disneyano “Fantasia” del 1940, ma in realtà sono molto di più, e più profonde, le cose che distinguono i due lavori da quelle che li rendono somiglianti. “Allegro non troppo” è ben altro e ben oltre il suo modello ispiratore. In esso la commistione tra animazione e riprese dal vero, tanto per fare un esempio, è più articolata e complessa, giacché in “Allegro non troppo” svolge una funzione di tipo espressivo e non solo estetico. E’ quindi fondamentale il ruolo svolto dal disegnatore (mirabile l’interpretazione di Maurizio Nichetti, che lo interpreta) “vittima” del direttore d’orchestra, che si muove con mimica e gestualità da vero cartone animato, fungendo da cerniera tra i due mondi. Tra parentesi, Nichetti in questa produzione, oltre che come attore, lavora anche come aiuto regista.
Questi due modi d’utilizzo dell’immagine, diventano reciprocamente indispensabili per lo sviluppo dell’intero racconto e la commistione tra i due generi è tale per cui ai personaggi umani vengono imposte situazioni da cartone animato (il direttore d’orchestra che si schianta sul pavimento lasciando il segno della propria sagoma) mentre quelli animati vivono situazioni “umane” (come nel finale, in cui si ha un ribaltamento di prospettiva tra “mondo reale” e “disegnato”).
Come in Fantasia, anche qui il motore di tutta la storia è la musica classica, con brani selezionati accuratamente, non solo per la loro riconoscibilità, ma soprattutto per le possibilità espressive che concedono al disegnatore.
C’è solo l’imbarazzo della scelta: il “Valse Triste” di Sibelius, ad esempio, magistralmente reinterpretato attraverso gli occhi di un gatto che ricorda con struggente nostalgia un tempo felice passato ed ormai irripetibile oltreché irraggiungibile; in quest’episodio, assolutamente sublime è l’idea di far rivivere nelle pupille del gatto stesso le immagini “dal vero”, che quasi immediatamente si dissolvono nel nulla, di momenti di vita vissuta all’interno di quella che una volta era casa sua ed ora non è altro che un rudere da abbattere. Non di meno, alla fine, pure il gatto si dissolve come i suoi ricordi, spiazzando innegabilmente lo spettatore, nel quale questa soluzione lascia la sensazione di essersi trovato immerso in un sogno.
Altro esempio è il brano vivaldiano, trasformato in pretesto sonoro per mostrare come la pace bucolica possa trasformarsi in un incubo per colpa dell’uomo, essendo quest’ultimo naturalmente incline a combinare disastri, anche se, a volte, in modo inconsapevole. Il finale di quest’episodio appartiene di diritto al filone ironico bozzettiano: anche se apparentemente soccombente, l’ape saprà prendersi un’inappellabile rivincita sul disturbatore. Questo racchiude in sé un concetto molto caro a Bozzetto e da quest’autore ricordato in ogni occasione: l’umanità, intesa come genere, non ha nessun particolare diritto né gode d’alcun privilegio nei confronti della natura, la quale, seguendo il proprio corso e le proprie leggi, gli infligge le inevitabili conseguenze del suo agire, proprio come fa l’ape alla fine dell’episodio.
Possiamo proseguire citando il “Bolero” di Ravel, il cui andamento sinuoso ed ipnotico (nel suo instancabile ripetersi) diventa lo spunto per una rivisitazione dell’evoluzione della vita. Qui, dopo un “incipit” dal deciso sapore kubrickiano, tutto ha inizio all’interno di una bottiglia: una massa liquida inizia a muoversi, fuoriesce dal contenitore e, assunta una forma ameboide, inizia ad esplorare il terreno circostante.
Quest’inarrestabile moto si accompagna alla comparsa, per partenogenesi, di creature sempre più complesse che, attraverso terra, aria ed acqua, colonizzano l’intero pianeta. Tra queste fa la sua comparsa anche un essere bipede che si fa immediatamente notare per la sua spiccata aggressività e perfida intelligenza.
Si potrebbe continuare: dalla “Danza slava N. 7” di Dvořak, in cui, ancora una volta, vengono implacabilmente messi alla berlina i modelli comportamentali dell’uomo, salvo poi giungere ad una sorta di riscatto finale, a “L’Uccello di Fuoco” di Stravinskij, rivisitazione della creazione e del peccato originale.
Si è discusso a lungo sul fatto che “Allegro non troppo” sia da considerarsi come la risposta italiana al disneyano “Fantasia”; come già detto, sono forse di più gli elementi che li dividono di quelli che li uniscono, e quindi sarebbe più giusto chiedersi se il lavoro bozzettiano non sia in realtà ben altro e ben oltre il suo pur illustre predecessore.
Di sicuro è sin qui l’opera più matura di Bozzetto, in cui egli sa coniugare magistralmente invenzione grafica, riflessione morale ed elaborazione di teorie filosofiche, tutte unite nel sacro vincolo dell'ironia.
“Allegro non troppo” è l’opera che consacra definitivamente il genio creativo di Bozzetto, anche se, ad onor del vero, questa produzione è valorizzata ed apprezzata prima oltreoceano che non qui in Italia (ma si sa, ”Nemo propheta in patria” …).
Facendo seguito al proprio convincimento che l’animazione non debba svolgere solo una funzione d’intrattenimento ma possa, anzi debba servire a veicolare e diffondere la conoscenza, Bozzetto, lungo tutti gli anni ’80, produce, in collaborazione con Piero Angela, per il programma di divulgazione scientifica “Quark”, circa cento cortometraggi, il cui scopo è quello di illustrare, facilitandone la comprensione, concetti scientifici e tecnologici non sempre alla portata del pubblico televisivo.
Nello stesso periodo prosegue la produzione di cortometraggi, tra i quali vale la pena ricordare “Moa Moa”, nel quale il Bozzetto filosofo  apparentemente si concede una vacanza, lasciando che a prevalere questa volta sia la pura e semplice “gag” visiva, utilizzando a tal fine colori vivaci, un tratto accattivante ed ambientando l’azione in uno scenario che immediatamente cattura l’attenzione.
Al decennio successivo appartengono due cortometraggi che lo hanno portato, rispettivamente, a vincere l’Orso d’oro a Berlino (1990) ed a ricevere la Nomination per l’Oscar (1991).
Il primo, “Mister Tao”, è un sublime omaggio alla filosofia Zen, a cui Bozzetto ci rivela di essersi avvicinato (2).
Mister Tao - Vincitore dell'Orso d'Oro a Berlino


 La continua ascesa, in totale serenità e senza alcuna fatica, del protagonista è metafora di dove può giungere chi agisce nel rispetto degli altri e della natura circostante, senza rinunciare ad avere un atteggiamento creativo.
"Cavallette" - Nomination all'Oscar
Il secondo, “Cavallette”, pone invece l’accento sul contrasto netto e stridente tra la prepotenza autodistruttiva dell’umanità (in una sorta di versione 2.0 di “Tapum! La storia delle armi”), ed il tranquillo, costante rigenerarsi della natura, secondo quelli che sono i suoi propri tempi e cicli, in modo tale che poi alla fine solo le cavallette sopravvivono nei secoli.


Sempre degli anni novanta è “Drop” in cui è affrontato l’argomento della conservazione dell’ambiente e, più in generale, della lotta al degrado delle nostre esistenze, anche sotto il profilo culturale. 
L’attività bozzettiana, dal punto di vista tecnologico, si è sempre mantenuta al passo con i tempi e quindi ecco iniziare, a cavallo della fine del secolo scorso, la produzione di cortometraggi mediante la “computer graphic animation”, sia in 2D, sia in 3D. Tra questi ultimi, una citazione la merita senz’altro il primo della serie, “LOOO”, realizzato strizzando l’occhio alla Pixar (si veda nel finale il movimento della lampada da tavolo) e prendendo benevolmente in giro la tematica dei super-eroi o sedicenti tali.


Bozzetto e l’animazione 3D: Looo
Per concludere, possiamo affermare che Bozzetto, in tutta la sua opera, rivolta trasversalmente ad un pubblico di adulti e di ragazzi, abbia sempre cercato di puntare la propria attenzione sul contenuto del messaggio, sull’idea che stava dietro al disegno, alla scena, all’intera animazione, invece che all’estetica fine a sé stessa del tratto grafico, sempre piegato alle esigenze comunicative e fatto diventare quindi strumento e veicolo di comunicazione piuttosto che elemento di pura e semplice soddisfazione del senso della vista.

REFERENZE
(1) M. Verger: Il mondo di Bruno Bozzetto. www.rapportoconfidenziale.org
(2) A.V. Boscarino: Itervista a Bruno Bozzetto. www.parol.it

(pubblicato con l'autorizzazione dell'autore)





1 commento:

  1. Avete parlato di un grande MAESTRO dell'animazione. Complimenti
    Lorenzo

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